FAIR PLAY FINANZIARIO: REGOLA "STUPIDA" O STRUMENTO DI POTERE?

Da: La Finanza del Goal

Il 26 novembre 2019, il fondo americano di private equity Silver Lake ha acquistato il 10% del Manchester City per $500 milioni, assegnando così al club dello sceicco Mansour un equity value di quasi $5 miliardi. (...)
Silver Lake è un fondo importante, che ha raccolto $15 miliardi da investitori internazionali (finanziari e istituzionali) e ha già realizzato investimenti per circa 40% degli asset in gestione. È quindi un investitore finanziario puro, che antepone il valore a qualsiasi decisione di investimento ed è quanto di più distante si possa immaginare dallo stereotipo spesso associato agli attuali azionisti del club.
Il Manchester City è sempre stato identificato (anche dalla UEFA) come uno dei casi emblematici di politica aziendale orientata alla spesa incontrollata nell’acquisto di calciatori e ad uno stile di management focalizzato su investimenti slegati dal concetto di redditività. A torto o a ragione (alla luce delle recenti evoluzioni potremmo dire: a torto) è stato sempre considerato la negazione plastica del concetto di sostenibilità. Al momento dell’operazione la rosa del City era valutata €1,3 miliardi da Transfermarkt.com superando grandi potenze calcistiche tradizionali come Real Madrid (€1,2 miliardi), FC Barcelona (€1,2 miliardi) e perfino i cugini spendaccioni del Paris Saint-Germain (€1,05 miliardi).

Il club inglese è anche finito per questo sotto la lente della UEFA, che ne ha questionato alcuni contratti di sponsorizzazione considerati anomali applicando al club sanzioni per la verità piuttosto blande fino alla clamorosa esclusione (ancora sub iudice) decretata a febbraio 2020.

Cinque miliardi di dollari sono una cifra clamorosa, mai toccata per un asset legato al calcio, da fare impallidire tutte le transazioni fin qui concluse. Secondo il Times, lo stesso Silver Lake aveva mostrato interesse un anno prima per il Chelsea senza tuttavia arrivare alla conclusione positiva dell’operazione. In passato si era vociferato di valutazioni tra i 3 e i 4 miliardi per club come il Manchester United o i due super club spagnoli (che difficilmente saranno mai in vendita, per la struttura della governance) ma le cifre ipotizzate non erano mai state pagate. In ogni caso non era accreditato di tale valore il City, che negli ultimi anni è stato uno dei club meno profittevoli tra i Big Six inglesi. Pur avendo riportato da qualche tempo il bilancio in utile, realizza ancora utili piuttosto modesti.

Tutto questo potrebbe indurre a pensare che il FFP sia una regola alquanto “stupida” in ottica finanziaria, perché non si può dire che lo sceicco Mansour non abbia creato valore pur seguendo una politica diametralmente opposta a quanto prescritto dai regulators di Nyon. Il City ha accumulato perdite notevoli per molte stagioni mentre assemblava una super squadra, in anni durante i quali il fatturato operativo non giustificava questa politica. Non è certamente un modello di crescita per endogenesi dei ricavi, ma per eterogenesi delle risorse finanziarie, apportate dal suo facoltoso azionista. Si colloca perciò agli antipodi rispetto all’ideologia della sostenibilità economica del calcio.

Il gruppo di Abu Dhabi ha però acquisito il club per £210 milioni (nel 2008) e ha successivamente coperto perdite per £630 milioni complessivi. Ha infine incassato metà dell’investimento realizzato in cambio del 10% della società. Dispone quindi di un asset che, in una libera transazione, il mercato valuta complessivamente oltre il quadruplo dell’investimento effettuato.

Questo dimostra che, per creare valore, esistono probabilmente altri modi rispetto a quelli prescritti dalle regole UEFA. Più semplicemente: inseguire il pareggio del bilancio non è necessariamente una regola aurea di sana gestione né una pratica affidabile di costruzione del valore. Si potrà obiettare che la UEFA non ha tra i suoi driver massimizzare il valore degli azionisti e che il sistema normativo intende perseguire un sistema di regole uguali per tutti, finalizzato a preservare la stabilità del sistema, limitando la tendenza strutturale all’overspending.

Ora, a parte la dubbia opportunità di anteporre queste finalità a un’attrazione di investimenti che potrebbe favorire la prosperità dell’industry, bisognerà forse chiedersi fino a che punto il mercato non si opporrà a un sistema normativo che mostra aspetti di incompatibilità con la logica del valore finanziario.

È evidente che non si favorisce con queste regole l’afflusso di capitali interessati all'industry, se si giudica dalle transazioni di mercato che si osservano. Il calcio resta un settore che erige barriere per tenere i capitali fuori dalla porta: non è l’unico caso di protezionismo ma è un modello autoregolamentato, retto su un equilibrio di interessi che appare man mano sempre più precario.

Chi ha leso il Manchester City dello sceicco Mansour, con la sua politica di investimenti? Di fatto, nessuno. Si dirà che il City e altri club sostenuti da grandi capitali hanno scatenato una crescita dei valori (l’acquisto choc di Neymar per €220 milioni da parte del PSG ha traslato in alto i prezzi dei calciatori) ma fino a che punto è un evento negativo per tutti gli altri club, che possiedono 25-30 cartellini il cui prezzo si rivaluta? Quando la FIGC saluta con soddisfazione “il ritorno delle plusvalenze” che ha riequilibrato i conti delle società italiane, si rallegra sostanzialmente di un incremento dei valori dei calciatori stimolato a cascata dagli investimenti a monte dei grandi club. Si dirà che la presenza di investitori con le tasche senza fondo ha indirettamente inflazionato gli stipendi dei giocatori e dei tecnici, ma di questo non hanno beneficiato solo gli atleti. Anche molti club hanno avuto la possibilità di accrescere i ricavi. Certamente l’inflazione salariale non ha favorito tutti ma solo chi ha saputo incrementare in proporzione maggiore i ricavi, mentre ha certamente svantaggiato i club che non hanno saputo recuperare l’aumento delle retribuzioni col fatturato. Ma questo è un meccanismo trasparente di concorrenza. Pare discutibile che, proprio chi dichiara di promuovere una competizione ad armi pari, si adoperi per tutelare chi è meno bravo a far crescere il fatturato, frenando chi invece riesce a farlo più efficacemente.

I fautori del FFP ribattono che gli obiettivi della politica normativa UEFA mirano a garantire equilibrio sul campo, prevenendo fenomeni di accaparramento del talento a suon di milioni che penalizzerebbero lo spettacolo a causa del maggior divario tecnico tra squadre ricche e povere. Se questa era l’intenzione, va detto che l’applicazione del FFP ha mancato gli obiettivi: come abbiamo visto, le distanze si sono accentuate, soprattutto nei tornei nazionali che non avevano mai visto dominanze prolungate come nell’ultimo decennio.

Senza arrivare a sostenere che lo squilibrio sia stato causato dal FFP (ci sembrerebbe assurdo) possiamo però tranquillamente riconoscere che la disciplina non abbia impedito che il divario aumentasse.

Se quest’ultima conclusione è fondata, se ne dovrebbe desumere che quella del pareggio di bilancio contenuta nel Financial Fair Play sia una regola “stupida”. Non favorisce la creazione di valore (anzi la frena) e non sembra contribuire a migliorare la spettacolarità del gioco (se lo spettacolo è legato all’equilibrio). Sembra quindi lontana da un punto di ottimo paretiano.

In conclusione, è assai probabile che PSG e City abbiano violato le regole del FFP ma se le regole fossero state applicate in modo da sbarrare la strada a investimenti così colossali non avremmo due super club internazionali e queste due squadre emergenti sarebbero rimaste confinate nell’anonimato in cui hanno vissuto per decenni. Oggi lo scenario continentale ha due top club in più a competere in Champions League, allargando così il ventaglio dei competitor tradizionali. È discutibile sostenere che questo abbia leso la spettacolarità della competizione. Semmai, proprio la distribuzione delle risorse generate dalla Champions League ha alimentato un circolo che ha beneficiato chi è stato in grado di fare i maggiori investimenti, di avere le rose tecnicamente più competitive e quindi di ottenere sul campo risultati migliori. È abbastanza singolare che un’istituzione che ha alimentato il divario con la distribuzione delle risorse si preoccupi poi di impedire ai club che ne sono naturalmente esclusi di attrarre dall’esterno i capitali con cui finanziare gli investimenti necessari per entrare nel gioco. Proprio questa politica tende a cristallizzare i divari esistenti e – semmai – amplificarli, mentre il gap tra i club di élite e i newcomers è stato colmato da capitali finanziari esterni.

Sostenere che i capitali esterni siano “finanza cattiva” mentre i ricavi endogeni (concentrati in poche mani) siano elemento di stabilità del sistema è un evidente paradosso. Affermare che la dominanza sul campo ottenuta con la superiore capacità di attrarre ricavi commerciali e televisivi sia da preferire a una dominanza perseguita con gli investimenti dei gruppi finanziari è un apparente strabismo, che forse contribuisce a preservare equilibri costituiti e rendite di posizione.

Forse l’ideologia del pareggio di bilancio è supportata proprio dai club dotati di un bacino più ampio di ricavi grazie a una migliore capacità di vendere il loro prodotto in giro per il mondo. Se queste barriere all’entrata non saranno adeguatamente tutelate (dal punto di vista dei club dominanti) da un sistema sanzionatorio della UEFA che mostra oggi i suoi limiti e che appare in qualche caso del tutto spuntato, i club più forti cercheranno di proteggere in altro modo il loro vantaggio competitivo, magari scavalcando la stessa UEFA.

Non è un mistero che l’ECA (organismo che raggruppa le maggiori società europee, presieduto da Andrea Agnelli) discuta da tempo il progetto di una super lega che si stacchi forse dalla UEFA e perfino (nelle versioni più estreme) dai campionati nazionali. Un vero campionato europeo di club autogestito, riservato a un gruppo di 32 squadre selezionate in base alla storia e al bacino d’utenza, sul modello delle grandi leghe americane. Si tratterebbe della replica su scala europea del modello già seguito dai club inglesi nel 1992, quando lasciarono la lega nazionale per creare la Premier: non è stato un esperimento fallimentare. Con questa mossa i club più potenti difenderebbero meglio la loro capacità di appropriability delle risorse, smarcandosi dalle macchinose procedure degli organismi di Nyon. Sarebbe una buona operazione per il calcio? Difficile dirlo, ma l’operazione può riuscire funzionale alla logica della creazione di valore. Perciò pare molto probabile che venga, prima o poi, tentata.

Sostanzialmente il Financial Fair Play sembra piuttosto lo strumento escogitato dalla UEFA per tenere alte le barriere all’entrata nell’inner circle che ha accesso primario alle risorse e dare ai blockbuster clubs (quelli capaci di generare ricavi con il brand e la presenza globale) una protezione dall’assalto dei newcomers, che potrebbero destabilizzare con capitali esterni il mercato del talento insidiando le dominanze acquisite. Se questo meccanismo non funziona adeguatamente i grandi club possono pensare di difendere il loro vantaggio competitivo da soli, staccandosi dalla supervisione della UEFA. Questo presenterebbe due vantaggi. Il primo è disintermediare la UEFA nella distribuzione dei proventi della Champions League. Abbiamo visto che due terzi del monte ricavi finisce in media nel montepremi della Champions League e viene poi distribuito in maniera abbastanza capillare, tra tutti i club che vi partecipano, in proporzione all’avanzamento nel torneo. Con la Super League i club più importanti controllerebbero una fetta probabilmente maggiore delle risorse.

Il secondo vantaggio è quello di stabilire autonomamente le regole di accesso.

Lo svantaggio più evidente sarebbe invece la perdita di interesse che colpirebbe i campionati nazionali, da cui tuttora le società ottengono ricavi importanti.

Il timore dei club esterni alla fascia alta è ovviamente quello di finire relegati in una grande divisione cadetta (una Serie B del calcio europeo), tenuti fuori dalla grande ribalta mediatica e soprattutto dalla tavola imbandita dei diritti TV.

La scommessa è che l’effetto netto sia positivo, anche se non si vede come potrebbe sfociare in una situazione win-win. L’UEFA non vede di buon occhio questi progetti e oscilla tra tentativi di inglobarli nella sua giurisdizione e l’aperta ostilità, dichiarata recentemente dal presidente dell’organismo Aleksander Ceferin. Date le dimensioni degli interessi in gioco è facile scommettere che l’attuale formula della Champions governata interamente dalla UEFA, non durerà a lungo.


 (La Finanza del goal, McGraw-Hill, pag. 364-369)
 In uscita dal 20 luglio.

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