Fair Play Out

Corriere dello Sport - 27 agosto 2020

Tra le vittime della pandemia conteremo presto la più insospettabile: il Fair Play Finanziario (FPF). La fine del sistema regolamentare che ha segnato l’ultimo decennio pare inevitabile, perché la cronaca ci offre dati poco rassicuranti. Un club come il Valencia rischia di non iscriversi alla Liga ma anche altrove i rumours di club in difficoltà si susseguono, mentre è certo che molte società chiuderanno i bilanci con gravi perdite chiamando gli azionisti a coprire i buchi. La Juventus rischia di affrontare il peggior bilancio della sua storia interrogandosi se rinunciare a Dybala o CR7, mentre il Borussia Dortmund annuncia una perdita dopo un decennio glorioso.

Il lockdown ha chiuso un rubinetto fondamentale di liquidità (il box office), la furiosa recessione mondiale che ne è conseguita riduce l’appetito degli sponsor e perfino le tv hanno intrapreso contenziosi. Mentre il fantamercato vive una realtà parallela, sparando ardite operazioni come se nulla fosse, la UEFA ostenta serenità. Annuncia “allentamenti” nella disciplina del FFP, ma promette di tenerne in piedi l’impianto complessivo. Nulla di più improbabile.
Come possa sopravvivere l’obbligo del pareggio di bilancio in un movimento afflitto dalla peggiore crisi della sua storia non è immaginabile, perché il problema esistenziale dei club è la cassa e non più l’equilibrio economico. Il calcio si basa sugli investimenti (nell’acquisizione del talento sportivo, nella realizzazione degli stadi). Questo richiede assunzione di rischio e impiego di capitale. Se gli eventi strozzano il meccanismo di produzione interna delle risorse (attraverso il fatturato), il ricorso a capitali esterni diviene non solo inevitabile, addirittura desiderabile. Si tratti di azionisti nuovi o esistenti, il football non potrà a lungo tenere sdegnosamente i capitali fuori dalla porta. Nuovi investimenti sono ossigeno per tutti: azionisti non in grado di sostenere l’onere di ricapitalizzare, calciatori, tecnici, sponsor e media.

Per anni abbiamo assistito al paradosso di una industry preoccupata anzitutto di scoraggiare (anziché incentivare) investimenti dall’esterno, ma ciò diventa oggi irrealistico. Club come il Chelsea, supportati da un azionista privato che vi ha riversato ingenti risorse nei suoi primi anni (prima che il FFP ne limitasse l’azione) tornano oggi a investire prepotentemente, muovendosi come se le norme del pareggio di bilancio non fossero più un problema. Annunciando Werner (50 milioni) e Ziyech (43) mentre Havertz (si parla di 100) e Thiago Silva sembrano in arrivo. Quasi 200 milioni già investiti nel mercato di quest’anno sono linfa per tutti: davvero il sistema-calcio può estrometterla dal circuito?  

Intanto altri club saranno forzati a tagliare i costi, liberandosi di ingaggi onerosi in un mercato con poco denaro in circolo e schiacciante prevalenza di offerta. Chi può disporre di cassa rafforzerà la qualità dell’organico con investimenti che potrebbero rivelarsi frazioni di quanto sarebbe stato necessario solo mesi fa. Potrebbe risultarne ridotta la distanza tra grandi e piccoli club, ma anche ridefinito il concetto di grande e piccolo. Domani un club non sarà necessariamente grande per fatturato, ma per capacità di investimento del suo azionista.

La Juventus è il primo club italiano (per risultati e valore di mercato) ma deve convivere con indebitamento elevato e una struttura di costi difficile da gestire, nella crisi odierna. Lo status di quotata non aiuta i suoi azionisti a intervenire liberamente. Inter e Milan hanno strutture di costo altrettanto onerose in rapporto ai fatturati, anche se meno pesanti in valore assoluto (l’Inter ha anche un indebitamento ingombrante) ma entrambi hanno azionisti capaci di immettere risorse senza vincoli eccessivi. Eliott e Suning possono pianificare con maggiore libertà e i rapporti di forza del campionato potrebbero modificarsi. Anche Roma e Fiorentina hanno nuovi azionisti, che non vorranno restare alla finestra e farsi soggiogare dall’asta dei ricavi. Come potrà la UEFA impedirlo?
Nel pieno del lockdown, mentre miliardi di persone vedevano stravolte vite, ritmi, abitudini di svago e consumo, mentre milioni di posti di lavoro andavano in fumo e business un tempo fiorenti cadevano improvvisamente in ginocchio, la UEFA istituiva un gruppo di lavoro dal nome pomposo (Emergency Working Group) per adeguare l’applicazione delle regole alla nuova realtà. Al termine del processo il FFP è stato semplicemente rimodulato nella definizione dei periodi di valutazione della disciplina di bilancio. Il 2019/20 (anno di esplosione della pandemia) è stato, in parole povere, “accorpato” al 2020/21 come se questo non fosse destinato a rivelarsi un anno perfino peggiore. L’idea della UEFA sarebbe anche buona, se il Covid fosse fenomeno passeggero da cui potremo liberarci senza scorie. L’evoluzione dell’epidemia non sembra autorizzare simili ottimismi e lascerà una recessione devastante, che limiterà la capacità di produzione di reddito dei prossimi anni. Non c’è dubbio che la correzione UEFA andrà rivista, perché modificare solo il monitoring period è come somministrare l’aspirina a un malato in terapia intensiva. In gioco non è più solo la struttura regolamentare – per quanto importante – ma il dogma del pareggio di bilancio, che Nyon impone da un decennio ai club partecipanti alle competizioni europee. Tenendo peraltro in mano le chiavi della cassa, perché nessun club con ambizioni tecniche (ma anche di creazione del valore finanziario) può prescindere dai fiumi di denaro delle coppe internazionali.
Di dogma si tratta,perché l’equilibrio ricavi-costi non è in finanza l’unica via per creare valore per gli azionisti e altri portatori di interesse: dipendenti, spettatori, creditori ma anche – nel caso del football – tifosi.

Alla fine del 2019 il fondo americano Silver Lake ha acquistato il 10% del City per 500 milioni di dollari, assegnando così al club dello sceicco Mansour un valore di quasi 5 miliardi. Silver Lake è un un investitore finanziario puro, che antepone il valore a ogni scelta di investimento. Lo sceicco aveva acquistato il City per 210 milioni di sterline nel 2008, poi ha coperto perdite per 630 milioni, prima di tornare stabilmente in utile. Il gruppo arabo ha quindi incassato metà dell’investimento in cambio del 10% della società. Questo dimostra che esistono altri modi per creare valore, rispetto a quelli prescritti dalle regole FFP.
Certo la UEFA ha l’obiettivo di dettare regole uguali per tutti, finalizzate a preservare la stabilità del sistema limitando gli eccessi di spesa, ma non si favorisce così l’afflusso di capitali. Il calcio resta un settore che erige barriere per tenere gli investitori fuori dalla porta: non è l’unico caso di protezionismo ma è un modello autoregolamentato, retto su un equilibrio di interessi che pare sempre più precario.

Chi ha leso il City dello sceicco Mansour con la sua politica di investimenti? Di fatto, nessuno. Si dirà che City, PSG e altri club sostenuti da grandi capitali hanno scatenato una crescita dei valori (l’acquisto di Neymar ha traslato in alto i prezzi dei calciatori) ma è davvero un evento negativo per altri club che possiedono 25-30 cartellini, il cui prezzo si rivaluta?

Quando la FIGC saluta con soddisfazione “il ritorno delle plusvalenze” che ha riequilibrato qualche anno fa i conti delle società italiane, si rallegra sostanzialmente di un incremento dei valori dei calciatori stimolato dai grandi investimenti. Si dirà che la presenza di azionisti con le tasche senza fondo ha inflazionato gli stipendi di giocatori e tecnici, ma di questo non hanno beneficiato solo gli atleti. Anche i club hanno potuto pompare i ricavi. Certo l’inflazione salariale non ha favorito tutti, ma solo chi ha saputo incrementare in proporzione maggiore i ricavi, mentre ha svantaggiato club incapaci di recuperare l’aumento delle retribuzioni col fatturato. Ma questo è un meccanismo trasparente di concorrenza. Pare discutibile che proprio chi dichiara di promuovere una competizione ad armi pari si adoperi poi per tutelare chi è meno bravo a far crescere il fatturato, frenando chi riesce a farlo più efficacemente. Per i fautori del FFP la UEFA mira a garantire equilibrio sul campo, prevenendo fenomeni di accaparramento del talento a suon di milioni che penalizzerebbero lo spettacolo a causa del maggior divario tecnico tra squadre ricche e povere ma, se questa era l’intenzione, pare aver mancato gli obiettivi. Le distanze si sono accentuate, soprattutto nei tornei nazionali che non avevano mai visto dominanze prolungate come nell’ultimo decennio. La Juventus ha vinto 9 scudetti di fila, il Bayern 8, il PSG ha vinto 7 degli ultimi 8 tornei in Francia e le ultime 15 edizioni della Champions League sono state vinte da club nella top-10 europea del fatturato, mentre club come la Roma sono stati pesantemente depauperati di talento dal rispetto del settlement agreement.

Se ne potrebbe desumere che quella del pareggio di bilancio sia una regola “stupida”. Non favorisce la creazione di valore (anzi la frena) e non contribuisce a migliorare la spettacolarità del gioco (se lo spettacolo è legato all’equilibrio). 

In conclusione, è assai probabile che PSG e City abbiano violato le regole, ma se queste fossero state applicate in modo da sbarrare la strada a questi investitori non avremmo oggi due super club internazionali e queste due squadre emergenti sarebbero rimaste confinate nell’anonimato in cui hanno vissuto per decenni. Oggi lo scenario continentale ha due top club in più a competere in Champions League, allargando così il ventaglio dei competitor tradizionali. È discutibile sostenere che questo abbia leso la spettacolarità della competizione. Semmai, proprio la distribuzione delle risorse generate dalla Champions League ha alimentato un circolo che ha beneficiato chi è stato in grado di fare i maggiori investimenti, di avere le rose tecnicamente più competitive e quindi di ottenere sul campo risultati migliori. È abbastanza singolare che un’istituzione che ha alimentato il divario con la distribuzione delle risorse si preoccupi poi di impedire ai club che ne siano tradizionalmente esclusi di attrarre dall’esterno i capitali con cui finanziare gli investimenti necessari per entrare nel gioco. Proprio questa politica tende a cristallizzare i divari esistenti e – semmai – amplificarli, mentre il gap tra i club di élite e i newcomers è stato colmato da capitali finanziari esterni, tra l’ostilità del sistema regolamentare (piuttosto distratto con alcuni e molto attento con altri).

Oggi il calcio affronta un problema nuovo: per la prima volta nella sua storia i ricavi si riducono e sembra contrarsi anche il valore dei calciatori. I maggiori canali di fatturato (biglietteria, sponsor, diritti televisivi, plusvalenze) rischiano di inaridirsi, mettendo in ginocchio un settore che ha sempre mantenuto una struttura di costi sovradimensionata, confidando nella crescita infinita.
La UEFA dovrà concludere che non è più il tempo di pareggiare i bilanci, ma di trovare un equilibrio finanziario tra uscite ed entrate di cassa. Se questo non potrà arrivare per canali ordinari, servirà un intervento degli investitori esterni, incompatibile con il FFP. L’alternativa potrebbe essere devastante.

 

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