Dai risultati 2019/20 della Juventus emerge un indebitamento netto di 386 milioni, che torna così a crescere dopo che l’aumento di capitale (300 milioni) a dicembre 2019 lo aveva riportato ai livelli del 2018. Il debito finanziario netto di un’azienda è quello contratto con banche o finanziatori, meno la cassa disponibile che lo riduce. Dipende quindi strettamente dall’andamento della gestione: l’aumento del debito segnala una pericolosa tendenza alla distruzione di cassa e richiede interventi strutturali per riequilibrare la situazione. Il debito può aumentare anche quando l’azienda impegna liquidità in investimenti: nel caso di un club, prevalentemente, i cartellini dei calciatori. Un investimento deve però realizzare risultati nel futuro, altrimenti non è produttivo e ne scaturisce una distruzione di valore. Acquistando CR7 nel 2018, ad esempio, la Juventus ha investito risorse consistenti e si è impegnata a pagare al fuoriclasse portoghese un ingaggio principesco, fino al 2022. Questa decisione ha dato alla società indubbi benefici, se si pensa ai contratti con gli sponsor (Adidas e Jeep) rinegoziati a cifre nettamente superiori oppure all’incremento di 16 milioni del fatturato da merchandising,solo nel primo anno. Inoltre la Juventus ha potuto leggermente incrementare i prezzi di biglietti e abbonamenti. Non ha invece ottenuto una crescita dei premi della Champions perché non ha superato i quarti di finale, risultato inferiore agli anni precedenti. Naturalmente gli investimenti di un club non si limitano a un giocatore ma riguardano l’organico, movimentato ogni anno in entrata e uscita. Complessivamente, però, la gestione bianconera è rimasta in perdita e le prospettive del Covid non fanno che peggiorare le aspettative.
Situazione analoga per altre grandi della Serie A: il debito Inter (pur ridotto dai consistenti interventi di Suning) era ancora sopra i 400 milioni al 31 marzo scorso, con un fatturato nettamente inferiore a quello bianconero (373 milioni contro 470, prima delle plusvalenze) mentre il Milan aveva solo 83 milioni di debito al 30 giugno scorso grazie alle massicce coperture di perdite operate da Elliott. Della Roma si sa che l’acquisizione richiederà a Friedkin l’accollo di oltre 300 milioni, mentre solo Napoli e Torino avevano una situazione priva di debiti finanziari l’anno scorso.
Complessivamente il debito della Serie A nel 2019 era stimabile in 1,4 miliardi, ma raggiungeva 4,3 miliardi (come risulta dal rapporto FIGC-Pwc) sommandovi i debiti commerciali. In una situazione “normale” questi non dovrebbero destare preoccupazione perché compensati dai crediti commerciali, ma bisogna tenere conto del terremoto che il Covid sta scatenando nel business del pallone.
Il crollo degli incassi da box office dovuto alle partite senza pubblico non potrà essere recuperato, ed è liquidità perduta (stimata in 700 milioni annui) che smette di alimentare l’intero sistema. La drammatica recessione internazionale, innescata dal lockdown, si rifletterà sulla capacità degli sponsor di sostenere gli investimenti pubblicitari, sicché tutti i club stanno già registrando cali nel fatturato commerciale e ritardi nei pagamenti. Le emittenti hanno innescato un contenzioso sui diritti 2019/20 e probabilmente tireranno il freno a mano quando parteciperanno alle aste. Sebbene la chiusura degli stadi dovrebbe in teoria incrementare l’audience tv, va stimato l’impatto durissimo che la recessione avrà sulla capacità di spesa delle famiglie abbonate a Sky, DAZN e altri. La crisi di liquidità sta già depauperando il maggiore investimento dei club: il valore dei giocatori in rosa.
Assistiamo a una campagna trasferimenti asfittica, in cui manca il denaro e si cerca di concludere scambi per migliorare nel breve i bilanci, senza generare la liquidità necessaria poi a pagare gli stipendi e i costi di gestione. Il grido di allarme lanciato da Agnelli, dalla tribuna dell’ECA, è reale: senza interventi straordinari molti club rischiano di fallire.
Torniamo ai crediti commerciali, quelli che le società si scambiano quando comprano e vendono calciatori, dilazionandone il pagamento. Unabomba che potrebbe esplodere, perché in una crisi sistemica molti club potrebbero non onorare i pagamenti e i default colpirebbero tutto il settore, con effetti devastanti.
Se prendiamo come termometro il bilancio della Juventus (solo perché l’unico al momento disponibile) la dilatazione della metrica di bilancio chiamata dagli addetti ai lavori “capitale circolante” è già vistosa. La difficoltà a incassare il credito inizia a percepirsi e non c’è da dubitare che colpirà tutti gli altri club, in misura più o meno proporzionata. Lo squilibrio delle società italiane tra costi e ricavi è cronico: molti club sono in perdita da sempre, altri hanno mitigato le perdite o pareggiato i bilanci solo grazie a cessioni di calciatori. Anche questo è un business. In fondo, una società di calcio contiene due business al suo interno: la produzione di ricavi caratteristici (botteghino, diritti tv, sponsor, merchandising) e il trading dei calciatori. Di quest’ultimo nessuno in Italia (quasi nessuno all’estero) può fare realmente a meno. Ma il trading presuppone che i prezzi salgano, come hanno fatto costantemente da quando esiste il calcio. Oggi il Covid pone di fronte alla prospettiva opposta
Come uscirne? Il calcio non può rinunciare a investitori desiderosi di finanziare le proprie aziende o di entrare con nuovi investimenti in club professionistici. Il Fair Play Finanziario imposto dalla UEFA non è sostenibile per un’industry colpita da uno tsunami di cui non si sono ancora visti pienamente gli effetti. Semplicemente, perché non si può impedire a un azionista di coprire le perdite ricostituendo il capitale. La UEFA potrà anche escludere quel club dalle sue competizioni, ma non potrà escludere tutti dalle coppe europee, perché finirebbero le coppe stesse.
Nello scenario attuale, la Serie A non può perdere l’occasione della media company che Dal Pino sostiene con grande determinazione: l’iniezione di liquidità dei fondi è irrinunciabile, così come la garanzia sui diritti tv dei prossimi anni. Ma va colta soprattutto l’opportunità di allargare la platea dei consumatori internazionali, sfruttando le potenzialità delle tecnologie digitali per vendere la Serie A su mercati finora trascurati dalla strategia commerciale dei club.
Il calcio è un gioco competitivo, ma anzitutto cooperativo. Banalmente, un campionato richiede la presenza di 20 club sani. I contenuti del campionato, non solo di ogni singolo club, vanno commercializzati. Dalle grandi crisi nascono le grandi opportunità e il Covid potrebbe essere l’anno zero della rinascita per il calcio italiano.