Nell’Assemblea di oggi il calcio italiano ha l’occasione per invertire il declino. Se invece vuole seriamente suicidarsi, ha un modo sicuro per farlo: sabotare il progetto di media company e tornare alle vecchie baruffe per la supremazia di quartiere. Litigare su anticipi e posticipi, nomine e designazioni arbitrali, mentre il calcio globale avanza e la testa del gruppo si allontana. A prescindere dalla scelta del partner, da fare confrontando le proposte, l’operazione in agenda è l’unica strada e non esiste un piano B.
Il trend è noto. L’Italia era 20 anni fa il secondo mercato calcistico, poco distanziato dagli inglesi (551 milioni di ricavi nel 96/97, contro 685 della Premier) ma ha accusato enormi ritardi causati dall’incapacità di proporre un’offerta commerciale all’altezza. I ricavi sono quadruplicati, ma gli inglesi sono cresciuti di otto volte, mentre altri ci hanno sorpassato. La Premier (5,4 miliardi nel 2018) fattura quasi due volte e mezza la Serie A (2,3 miliardi) umiliata anche da Liga e Bundesliga (entrambe a 3,1), avvicinata dalla Francia (1,6) un tempo lontana. La scarsa attrazione di risorse penalizza l’aspetto tecnico, perché calcio è una industry basata su una risorsa scarsa: il talento sportivo. Non basta crescere, se i tuoi concorrenti ti superano, perché nella gara per i migliori giocatori arriverai sempre dopo e ciò è puntualmente accaduto. Il ricordo di una Serie A palcoscenico dei grandi campioni mondiali rende difficile accettare un declino così malinconico, ma i fuoriclasse non vengono (o lo fanno in età avanzata) perché club più ricchi offrono ingaggi superiori. I fattori che hanno stravolto la geopolitica del pallone? La valorizzazione dei diritti televisivi (triplicati nel decennio 2008-18) e la calata degli sponsor (raddoppiati). Poi qualcuno è rimasto indietro. Prima nel campionato italiano, la Juve ha incassato 85,3 milioni di diritti domestici nel 18/19. Meno di Huddersfield Town, Fulham e Cardiff, retrocesse dalla Premier, tutte sopra i 100.
La diversa capacità di attrarre talento rende impari il confronto nelle competizioni europee, limitando la capacità di intercettare il fiume di denari delle coppe e allargando il gap. Risultato: da 10 anni non vince un’italiana, mentre un tempo lottavamo per il vertice.
Il declino è iniziato quando la Serie A ha perso il treno della globalizzazione che ha allargato la platea dei consumatori, aprendo ai club mercati un tempo irraggiungibili, soprattutto quelli asiatici dove il nostro calcio non ha puntato.
Il ritardo è grave ma non incolmabile. Il Covid offre opportunità inattese, rimescolando le carte e accorciando le distanze. Ad esempio, la Premier subisce la risoluzione del contratto con Suning Holdings per i diritti sul mercato cinese, che può privarla di mezzo miliardo di ricavi ma anche di grandi sponsor asiatici. Se la mossa riflette tensioni politiche tra i due governi, dopo lo stop a Huawei sul mercato britannico, spazi enormi potrebbero spalancarsi.
Per la Serie A è in gioco un cambio di paradigma strategico. Non a caso, Dal Pino lo definisce un progetto di “creazione di valore a lungo termine”: recuperare la concorrenzialità perduta per ristabilire un vantaggio competitivo su campionati rivali. “Rilanciare la Serie A per farla diventare, di nuovo, il miglior campionato al mondo” ha detto al Financial Times, non a caso la tribuna della comunità finanziaria internazionale.
Il meccanismo è semplice: Lega Serie A costituirebbe una nuova società (la media company) a cui assegnare i contratti dei diritti televisivi. Cederebbe poi il 10% della media company a investitori internazionali (una cordata di fondi private equity scelta tra le due in gara) incassando tra 1,3 e 1,65 miliardi di euro. Denaro fresco, per dare ossigeno alle disastrate finanze del calcio italiano, nel momento di massima incertezza della sua storia. Ciò equivale a valutare la media company tra 13 e 16,5 miliardi. Se il valore di un’azienda è quello delle attività che essa contiene (meno i debiti), si apprezza l’enorme appetibilità che la capacità del calcio italiano di attrarre risorse riscuote sul mercato. Non a caso i player in gara (CVC-Advent-FSI da una parte, Bain Capital-NB Renaissance Partners dall’altra) risulteranno oscuri al grande pubblico ma sono tra i più grandi e sofisticati investitori finanziari al mondo.
Altre proposte, promosse da chi manifesta dubbi sui private equity, prevedono di finanziare la società col debito, lasciando la Lega al 100% e puntando a mantenere il controllo totale della macchina generatrice dei ricavi. Arriverebbe quindi denaro in prestito, che richiederebbe una spesa per interessi quantificabile in 100-150 milioni annui e che andrebbe poi naturalmente restituito. Uno schema che lo stesso advisor Lazard pare sconsigliare.
La Serie A ha già un livello di indebitamento spaventoso (91% degli asset) che la espone a qualsiasi turbolenza. Con un patrimonio del 9% un settore cronicamente in perdita rischia il default e dovrà sempre chiedere denaro agli azionisti (nuovi o esistenti). Per fare un confronto, il patrimonio dei club di Premier è dieci volte quello della Serie A. Iniettare altro debito nel campionato più indebitato d’Europa, impegnando i ricavi futuri, sarebbe un azzardo mortale: basta la contrazione innescata dal Covid a rendere pericolosa questa strada.
Qual è l’obiettivo dei fondi? Evidentemente quello di guadagnare. Ad esempio, CVC (uno dei partecipanti) ha acquistato la maggioranza della formula Uno nel 2006 e realizzato utili dalla vendita, nel 2017. Per valorizzare una quota occorre poi lavorare sul prodotto, sul business e costruire valore nel tempo: operazione non solo finanziaria, ma anzitutto industriale. Se la minoranza si venderà a un valore superiore, anche chi detiene la maggioranza (Lega Serie A) ricaverà enormi vantaggi. Obiettivo è che sia un win-win game, un gioco in cui la somma dei guadagni sia, per tutti, maggiore degli sforzi profusi.
Quali vantaggi offre l’apertura del capitale a investitori internazionali? Intanto le offerte garantiscono un minimo di 1,5 miliardi a stagione, che andrebbero ai club: cifre inimmaginabili in tempi di ristrettezze (la Serie A incassa oggi 1,4 miliardi con un’asta imminente che non promette benissimo.
Inoltre la media company non sarà una scatola vuota, ma un’azienda con risorse manageriali e competenze di marketing e tecnologia, capace di vendere i contenuti della Serie A. Serve conoscere lingue, culture, abitudini di consumatori lontani, oltre alle enormi potenzialità dei canali digitali, in un passaggio epocale che separerebbe il governo politico del calcio dalla gestione commerciale del prodotto. La rivoluzione digitale consente di sollecitare in ogni angolo del mondo clienti che la tv non raggiungeva, portando il calcio nella sua terza era storica: dopo la pre- televisiva e la televisiva, oggi l’era digitale. Grazie alle app, trasformare contenuti audiovisivi in icone sullo smartphone apre possibilità immense, perché il consumatore può portarsi dietro i contenuti e consumarli ovunque, diversamente da quelli televisivi che richiedevano la presenza fisica davanti all’apparecchio. Ogni tifoso al mondo può essere raggiunto e la sua partecipazione all’evento può essere monetizzata. Questo è mancato al calcio italiano, distratto dalle risse di cortile ma chi può farlo oggi? Non certo dirigenti di club figli di un mondo tecnologicamente tramontato, comunque concentrati sulla gestione societaria. Se questa sfida non si coglie il calcio italiano è destinato al declino, mentre ci sono forse i margini per un rilancio. Non significa sostituire la classe dirigente, ma importare le competenze strategiche e manageriali necessarie.
Il calcio è gioco competitivo, ma anche cooperativo. Da soli, senza tutti gli altri, non si va molto lontano e anche per giocare una partita sul campo bisogna essere in due. Per vendere un prodotto come la Serie A occorre un set di contenuti che non può essere garantito da uno o pochi player, ma richiede uno sforzo comune. Milan e Inter hanno proprietà con questo obiettivo in testa, così come la Roma. De Laurentiis mostra grande attenzione al tema dei contenuti e Cairo è uomo di media. Altre proprietà sono certamente guidate dal valore. Occorre quindi che tutto il sistema si muova nella stessa direzione perché le deficienze strutturali del prodotto collettivo hanno frenato, ad esempio, la Juventus, che ha cercato di costruire valore.
Nessun campionato ha mai tentato la strada della media company aperta a investitori: un modello che metterebbe finalmente il calcio italiano alla testa dell’innovazione di prodotto, con l’esternalizzazione della funzione di elaborazione strategica della proposta commerciale.
Perfino la Premier, che ha sfruttato come nessuno l’Eldorado dei diritti televisivi, sta cambiando approccio: una piattaforma OTT (chiamata forse Premier Flix) con cui vendere direttamente al consumatore, non più solo le emittenti. Questo significa avvicinarsi al consumatore finale, appropriarsi di una fetta maggiore scavalcando le tv. Ma significa anche accollarsi un rischio. Uscire dalla comfort zone delle aste che garantivano per 3 anni miliardi su cui contare. Nuotare in mare aperto, vendere contenuti ai consumatori girando il mondo con la valigetta in mano, come fanno Disney, Warner Media, Netflix, Discovery e le altre media companies globali.
L’era dei diritti tv volge al tramonto. Per vincere la partita dei prossimi anni non basta entrare in casa degli spettatori, ma in un oggetto che il consumatore globale ha in tasca minuto per minuto, da cui può guardare contenuti non solo il giorno della partita, ma in ogni momento. Chi si muove oggi avrà un vantaggio competitivo. Chi continua a dire no per sbarrare la strada ai concorrenti del momento o per aspettare l’offerta imperdibile della cordata amica consegnerà il calcio italiano alla marginalità.
Paralizzata da una governance farraginosa e polverizzata, la Lega si è distinta per una gestione parrocchiale e inefficiente di un prodotto molto appetibile, svilito da modalità di assegnazione dei diritti a cordate talvolta improvvisate che hanno lasciato i club con il cerino in mano. La dispersione di valore è evidente. Ogni asta è una scommessa, senza una vera programmazione. Poi i conti si sono sempre regolati in casa, con leggi che muovevano il pendolo da una parte o dall’altra e tutti impegnati a redistribuire, anziché a far crescere il business.
In questo scenario, arriva anche la proposta del presidente del Napoli: far produrre direttamente alla Lega i contenuti (Serie A, Coppa Italia ecc.) proponendo lo stesso prezzo a tutte le piattaforme media (Sky, DAZN ma anche Tim, Vodafone, Netflix, Amazon) che possono poi competere tra loro. Dal Pino aggiunge produttori di apparecchi (come Apple) che sarebbero interessati a giocarsi i contenuti del calcio come strumento di vendita. L’idea di ADL non pare in contrasto con il progetto ma riguarda magari la fase 2: come vendere i contenuti dopo aver scelto l’assetto di governo.
Che possa farlo direttamente la Lega, senza subire i condizionamenti di una gestione assembleare, pare difficile. La media company gestita da manager, guidata da una governance snella con investitori esterni attenti all’efficienza, garantirebbe maggiore efficacia.
Oltre alle modalità di vendita, l’altra scelta decisiva è la destinazione delle risorse. Se la Serie A dirotterà i soldi nelle tasche dei protagonisti del momento (procuratori e calciatori), la ricchezza finirà nell’idrovora che il calcio è stato in questi anni. Se sarà invece impiegata in infrastrutture come gli stadi, rendendo fruibile il prodotto e più ricca l’esperienza dello spettatore, si potranno generare maggiori ricavi grazie a migliori riscontri dal botteghino. Se i club sapranno investire nei vivai la Serie A avrà rose di maggior valore e sfrutterà una grande tradizione (nel decennio perduto del calcio italiano la Nazionale ha collezionato brutte figure, non superando le fasi a gironi dei mondiali). Anche il marketing richiederà risorse mirate con competenza e attenzione.
Dal Pino spiega che le risorse saranno distribuiti negli anni, riservando una parte consistente agli stadi e 150-200 milioni alla promozione commerciale del prodotto.
Se il calcio italiano saprà fare questo, getterà le basi per maggiori ritorni futuri. Se si limiterà a tamponare le perdite generate dalle campagne acquisti diverrà impossibile competere – anche sul campo – con chi sta dimostrando superiori capacità di organizzazione.