Apsaras

Una ninfa del cielo in esilio

Apsaras - Una ninfa del cielo di Indra in esilio - DA KHAJURAHO AD AMSTERDAM, LA STORIA DI UN VIAGGIO NELLO SGUARDO DELL'UOMO.


Questo racconto segue le vicende del viaggio di una statua che rappresenta una delle ninfe del cielo di Indra, dal suo santuario di ombra e pietra arenaria nel cuore dell'India del nord, Khajuraho, al Rijksmuseum di Amsterdam, dove arrivò nel 1934. Questa storia è stata ampiamente e dettagliatamente ricostruita da Anna A. Ślaczka, di cui riporto i riferimenti al suo lavoro nelle note in fondo a questa pagina, insieme con le altre fonti. 
Khajuraho risplende, nell'immaginario occidentale più comune e nella narrazione che ne viene fatta attraverso il continuo rimando alla statuaria che riveste gran parte delle superfici esterne ed interne di alcuni dei suoi templi, grazie al continuo e insistito riferirsi ai "templi dell'amore" o dell'erotismo o del Kama Sutra; la storia che racconto qui, nasce dal desiderio di coltivare la curiosità più sincera verso un racconto, quello cristallizzato nella pietra, che parla una lingua e si fa veicolo di significati che hanno bisogno di attraversare il nostro pensiero liberi dai condizionamenti che cultura e codici sociali si riversano su quelle immagini. 
La storia e la voce di questa ninfa, ho scoperto che parlano, in fondo, di libertà e non di libertini. 
È tutta un'altra storia.  

Questa storia è un viaggio di preparazione ad un incontro che, presto, si farà realtà; l'incontro con le apsarasas del Lakshmana mandir di Khajuraho e quelle che vivono la loro vita "in esilio", come è il destino di tanto patrimonio culturale di ogni Paese, quando è stato sradicato non soltanto dal proprio luogo di origine, ma, con quello, dalla fitta rete di relazioni culturali e di significato che lo hanno generato e che na hanno permesso la realizzazione. In fondo, è un viaggio attraverso le origini, con lo sguardo aperto. 
Presto io e Fabrizia torneremo in India, anche per celebrare questa storia e siamo aperti a condividere con te, che stai leggendo queste pagine, il nostro prossimo viaggio. 

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Prologo - La voce di Apsaras

Mi hanno dato il nome di Apsaras, e sono una ninfa del cielo di Indra, il Signore del cielo, dei fulmini e delle tempeste, delle piogge e dei fiumi fluenti, dell’ordine e della guerra. 
Di me, e delle mie 25 sorelle, si lodano la bellezza e le curve sinuose, il sorriso che ammalia e l’ondeggiare del corpo al ritmo della danza. 
Dicono che sono scesa sulla terra, una volta, per sedurre rishi Vishwamitra che stava, immobile, nei suoi esercizi spirituali e che, così, attraverso la sua pazienza, la sua perseveranza e determinazione, si apriva ad una saggezza ricolma di potere al punto da intimorire Indra, il mio Signore. 
Dicono che Indra stesso mi mandò a sedurre rishi Vishwamitra, per distoglierlo dal suo cammino di perfezione e impedirgli di eguagliare il Signore dei cieli. 
E che lo sedussi, e mi unii con lui e generai una figlia che prese il nome di Shakuntala, che abbandonai alle acque del fiume e che sopravvisse e crebbe per raccontare la mia storia.

Se mi guardi con gli occhi dei sensi, vedrai in me una seduttrice, ma io sono molto più di questo, io sono colei che mette alla prova, che spinge a cedere all’impulso dei sensi. Io mostro la via di fortificazione che attraversa la tempesta dello smarrimento della tua stessa volontà.

Dicono di me che dimoro nella luce dei cieli, lì dove l’acqua condensa in nuvole bianche di vapore e che danzo sulle melodie di Gandhara, mio sposo e musico celeste, bello come la luce del Sole mentre assorto, dà sostanza al Soma, il nettare gradito agli dèi.

Molti e molti anni fa, nel tempo che tu chiami il secolo quinto, mi hanno dipinta sulle pareti rocciose di innumerevoli templi, nel cuore di una terra che tu chiami India, in un luogo a cui hai dato il nome di Ajanta; e così hanno fatto nelle segrete della terra che tu chiami di Sigiriya, protetta dalle acque dell’oceano grande nel centro di un’isola a cui hai dato il nome di Ceylon. 
Ma io ho trovato posto nel cuore dei tanti che hanno posato lo sguardo incantato sulla mia bellezza, che tu hai visto e creato. 
Ho messo vesti e gioielli che hanno acceso i tuoi occhi, assopito la tua mente, scaldato il tuo cuore, nutrito il tuo corpo. 
Mi hanno dato un corpo di pietra, con cui hanno fatto di me l’immagine immobile di un fremito. 
Mi hanno dato una casa, di arenaria e ombra, che hanno chiamato tempio per venerare l’immagine del Signore dei cieli. Hanno issato quella mia immagine su pesanti colonne di pietra, lì, sulla soglia che conduce al luogo più sacro a cui hai impedito l’accesso. 
E mi hanno portata via di lì, via dall’amato rifugio dove ero venuta a te, per ricordarti la via di bellezza e seduzione; mi hanno venduta, me e le mie sorelle più belle, allo sguardo puritano di genti di luoghi lontani, lasciandomi al freddo di una teca di vetro, esposta allo sguardo aggrottato di un visitatore distratto.

Mi hanno chiamata Apsaras, la ninfa del cielo di Indra e di quelle immagini, di una di quelle, di pietra brunita arenaria, questa è la storia.



1. Apsaras del cielo di Indra, custodita nella colezione di arte orientale del Rijksmuseum di Amsterdam


L'arrivo in occidente

Il 23 novembre 1934, dopo poco più di un mese di viaggio attraverso l’oceano, imbarcata nel porto di Calcutta sul vascello Hoogkerk della Java-Bengal Line, per la cifra di 2030 fiorini olandesi, arriva ad Amsterdam, destinata alla Society of Friends of Oriental Art che l’aveva acquistata grazie alla mediazione di Charles-Louis Fabri, la ninfa celeste di pietra arenaria originaria, secondo le credenze di quel momento, della regione di Calcutta. 
Charles-Louis Fabri era nato a Budapest nel 1899 da famiglia ebrea ed era cresciuto nel clima multiculturale dell’Impero Austro-Ungarico. Aveva studiato filosofia, indologia, arte orientale e storia dell’arte e conseguito il suo dottorato nel 1927 all’Università di Pécs. Al seguito di numerose spedizioni archeologiche in oriente, nel corso delle quali si fa notare per la sua brillantezza ed il suo acume, nel 1934 ottiene l’incarico di lettore nel centro sperimentale di formazione di Santiniketan, fondato nel 1901 dal premio Nobel per la letteratura Rabindranath Tagore; qttraverso quel centro prende vita un originale modello educativo  che trova le sue radici nella tradizione del continente indiano e che si apre al mondo attraverso il carattere delle sue architetture, del paesaggio e degli eventi d’arte e tradizioni locali. 
Proprio nel 1934 Fabri viene ingaggiato dalla Society of Friends of Oriental Art olandese, con lo scopo di individuare e rendere disponibile per l’acquisto un oggetto d’arte della statuaria indiana.

È così che la nostra apsaras comincia il suo viaggio verso occidente. 
Ad Amsterdam, dove l’attendono gli spazi del Rijksmuseum, la casa dei maestri dell’arte olandese da Rembrand a van Gogh passando per Vermeer, i membri della Society of Friends of Oriental Art si trovano di fronte ad una bellezza che disturba lo sguardo di taluni, tra tutti il presidente della stessa società, H.K. Westendorp che la giudica “sgradevole nel colore della pietra e poco attraente nel drappeggio”
Oggi diremmo, con le parole di Anna A. Ślaczka che ne ha ricostruito le vicende in un ricco saggio pubblicato nel 2012, che 
“il puritanesimo europeo non poteva gestire la voluttà delle forme e l’evidente erotismo della ninfa”. 


2. La nuova casa dell'Apsaras di Khajuraho, il Riksmuseum di Amsterdam

La mia bellezza

A cosa si trova davanti Westendorp?
La sarasundari¸l’altro nome con cui vengono chiamate le apsarasas – apsarasas è il plurale del sanscrito apsaras – sta in piedi sotto la chioma di un albero di mango, con lo sguardo sognante e assente, e i segni delle unghie delle dita sulla tempia sinistra e sulla spalla a testimoniare dell’incontro appena consumato con il suo amante. Nella mano sinistra impugna il lembo del velo che ne ricopre il bacino e le gambe, e lo scosta nell’atto di proteggersi da una scimmia che le si avvicina giocando e toccandole le gambe, e scostandolo lascia che si svelino le sue pudenda. Altre due scimmie stanno sulle fronde dell’albero nell’atto di saltare giù verso le spalle della nostra apsaras; nella mano destra impugna un cāmara¸uno scacciamosche, con cui cerca di allontanarle. Il lungo scialle che adorna le sue spalle scivola via sul corpo sinuoso cadendo in morbide pieghe di tessuto. Il seno tondo e prosperoso è nudo e sulle sue curve si appoggiano i gioielli che ne adornano il corpo, un lungo pendaglio di perle nel mezzo che pende da una ricca collana intorno al   collo e un generoso triplo giro di pietre, che immaginiamo preziose come si conviene ad un essere celeste. Alle braccia e ai polsi braccialetti, orecchini alle orecchie, cavigliere ed anelli. Sulla fronte il bidi, il tilaka, che nell’antico Rigveda compare sulla fronte della dea Usha, moglie di Surya, come simbolo del sole nascente. I capelli sono raccolti all’indietro e legati con un fiocco e una collana di perle e sei ricci adornano ciascun lato delle tempie. Tutto il corpo nudo della ninfa è ornato di gioielli e fiori  dell’albero di Ashoka, e l’accompagna un’ancella, piccola, che le sta ai piedi del fianco sinistro.

Da dove arriva questa ninfa di bellezza celeste? Da Calcutta, si diceva al principio del secolo scorso, ma proprio Anna Ślaczka ne ricostruisce un'altra origine, il luogo primo da cui è stata prelevata per imbarcarla, dopo il suo percorso terreno, su una nave diretta in Europa e il tempo in cui è stata prima vista dagli occhi di un mecenate e del suo scalpellino e ha poi trovato posto nella sua dimora di pietra e ombra. 
La nostra apsaras arriva, e ne sono testimonianza numerose similitudini stilistiche, comparazioni sulle dimensioni, sul carattere delle forme, sul tipo di ornamentazione che qui non riprenderemo per non dilungarci troppo, dal cuore della pianura gangetica, da quel luogo a lungo dimenticato e abbandonato alla natura più rigogliosa e lussureggiante che è Khajuraho.  
 


3. La prima apsaras a sinistra è custodita al Rijksmuseum di Amsterdam, le quattro in bianco e nero sono custodite a Calcutta. Tutte e cinque provengono dal tempio Lakshmana di Khajuraho. 

La mia casa

Khajuraho è stata riscoperta da occhi occidentali nella prima metà dell’Ottocento, dal capitano T. S. Burt, ingegnere di Sua Maestà che raggiunse un villaggio ormai smarrito da secoli di abbandono nel 1838, e poi da Sir Alexander Cunningham al quale si deve gran parte dell’esplorazione del subcontinente indiano e la fondazione e guida dell’Archaeological Survey of India, tuttora l’ente preposto alla tutela del patrimonio storico, architettonico, paesaggistico ed archeologico dell’India. Cunningham visita e studia i monumenti di Khajuraho nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta del 1800. 
Cosa c’era a Khajuraho di così straordinariamente interessante?
Più di venti templi, quasi perfettamente conservati grazie all’oblio che li ha protetti non tanto dall’incuria, quanto piuttosto dai saccheggi, dalle demolizioni per farne cave di pietre come tante volte accade nella storia dei monumenti antichi dovunque nel mondo. Questi templi suddivisi in tre complessi principali, di culto induista e jainista, rappresentano quanto è arrivato sino a noi di più di 80 edifici, secondo la tradizione, che facevano di Khajuraho un importantissimo centro di culto e fede tra la seconda metà del 900 e i primi decenni del nuovo secolo che cominciava con l’anno mille. Ancora nel 1335, ibn Battuta, uno dei più importanti viaggiatori del medioevo il cui itinerario, per ricchezza, estensione e durata nel tempo può facilmente essere accostato a quello di soli pochi anni precedente di Marco Polo, nel suo lungo cammino attraverso il mondo conosciuto a partire dalla sua terra d’origine, il Maghreb, ne parlava come di un centro ricco di templi e di asceti. Poi, dopo il quindicesimo secolo, periodo a cui data l’ultima iscrizione presente a Khajuraho, più nulla per più di quattrocento anni.

Il Lakshmana mandir (950 ca.), il Visvanatha mandir (999 ca.), il Kandariya Mahadeva mandir (1030 ca.) e il Parsvanatha mandir (950-70 ca.) sono solo quattro degli edifici più importanti e meglio conservati di Khajuraho, ed è al Lakshmana mandir che dobbiamo guardare per ritrovare quella casa di pietra arenaria e ombra scura da cui la nostra apsaras è stata allontanata per il suo viaggio verso occidente.

Il Lakshmana mandir è una straordinaria macchina narrativa che evoca, attraverso una complessa rete di richiami a pratiche yogiche e principi del tantrismo del Kashmir, il percorso di liberazione dalla dipendenza dalle angustie della carne e del corpo mortale, chiamando a raccolta le energie della distruzione, della creazione e conservazione, le immagini dei mondi mondani e di quelli celesti, le forze primigenie di Agni, Vishnu e Siva. Il Lakshmana è uno dei pochissimi templi rimasti dedicati a Vishnu, la cui statua originaria del Kashmir, fu acquisita da Re Yasovarman dei Chandella da Re Devapala della dinastia dei Pratihara, a sugello della supremazia dei primi sui secondi. 


4. Il Lakshmana mandir, costruito a Khajuraho e consacrato nel 954 d.C.


E nel luogo più intimo del tempio, lungo il percorso che ci accompagna in processione intorno al sacello dove è custodita l’immagine più sacra di Vishnu Vaikuntha da cui tutto origina, lì ritroviamo le ninfe sorelle della nostra apsaras  di Amsterdam. Sulle colonne che precedono e preparano alla visione della divinità, plasmate nella pietra nel loro sinuoso slancio di perfezione e bellezza, traghettatrici, attraverso lo stato estatico, verso la beatitudine della perfezione ultima, libera da ogni divisione e frattura. Lì, nel tumulto dell’ascesa allo stato di contemplazione e meditazione, trattengono l’ultimo sguardo dell’asceta, prima dell’abbandono finale alla liberazione dalle catene della vita mondana e della illusorietà del mondo terreno.

Delle 26 apsarasas alcune, non solo la nostra di Amsterdam, non sono più al loro posto. Quattro sono conservate nell'Indian Museum di Calcutta. 

Quelle che ancora arricchiscono il racconto che il tempio Lakshamna veicola e le cinque disperse nei mmuesi di India ed Europa sono lì a testimonianza di una comunità che le ha volute vedere realizzate nel loro corpo di pietra, che ne ha patrocinato la realizzazione, che ha voluto lasciare testimonianza della sua partecipazione all’impresa titanica della costruzione di una così articolata scenografia della liberazione, attraverso un segno, piccolo, inciso sul piedistallo che sorregge ciascuna delle apsaras, una firma, sempre diversa, a ricordo di uno sforzo collettivo e condiviso. 
Uno sforzo dove, così come sovente è l’India, le immagini di un corpo finito, si susseguono una dietro l’altra, tutte diverse e compiute in se stesse, a costruire una veste che ricopre per intero lo scheletro di pietra del tempio. È come se, piuttosto che dare forma ad un grande quadro che con un solo gesto, con una sola immagine, sintetizzi tutto il racconto della esistenza terrena e divina, fossimo accompagnati in una narrazione di singoli episodi, ciascuno chiuso in se stesso, ciascuno vivo nella sua perfezione, ma aperto e proteso verso l’infinito attraverso il richiamo a quello che lo segue e che lo precede. 
Le apsarasas, così, non sono sole, in quella penombra, ma vivono insieme alla moltitudine di immagini che le accompagnano, e alla ricchezza degli sguardi che si fermano, nel loro cammino, a contemplarle.

Io sono qui, sembra dirci la nostra apsaras, nella mia teca di vetro che rifulge della luce che mi dà corpo, nel cuore di Amsterdam, orfana delle mie sorelle che brillano a Calcutta e di quelle che ancora presidiano la porta di accesso al Vishnu Vaikuntha nella piana di Khajuraho. 
E aspetto insieme con le mie sorelle, il tuo sguardo di meraviglia e stupore, per accompagnarti nel tuo cammino di liberazione. Portami con te, non per estinguere il tuo desiderio nella contemplazione della mia bellezza, ma per realizzare la tua libertà.

5. Apsarasas, maestri yoga e divinità in una delle sezioni scultoree che rivestono tutto il corpo esterno del tempio Lakshmana a Khajuraho. 



CREDITS:

questo racconto è stato scritto a partire dai contributi di Anna A. Ślaczka in Ślaczka, A.A., 2012 “Temples, inscriptions and misconceptions: Charles-Louis Fábri and the Khajuraho Apsaras.” The Rijksmuseum Bulletin 3 (2012): 212-231, che puoi leggere integralmente su academia e Woodward, H. W. (1989). The Lakṣmaṇa Temple, Khajuraho, and Its Meanings. Ars Orientalis, 19, 27–48, che puoi leggere integralmente su jstor

Le  immagini  1. e 3. sono pubblicate nell'articolo di Anna A. Ślaczka, l'immagine 4. è disponibile su Unsplashed, le immagini 2. e 5. sono disponibili sul web. 


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