Ti piace il tè? Quando la coscienza mi diede appuntamento sulla Via della Seta.

Il racconto di un incontro che ha cambiato il corso degli eventi.

Come fiorisce la vocazione per il viaggio di scoperta e traformazione.


La luce di cortesia emanava un fascio sottile e giallastro a rischiarare il volto fresco di Irina, tutta assorta nel suo libro alla penombra dei suoi compagni di viaggio. Gli occhi fissi sulle righe mosse dal rumore sordo dei quattro motori che ci portavano in volo verso oriente, sorvolando mari e terra, non si stancavano di correre tra una pagina e l'altra. Noi, in sette, mezzo addormentati e storditi dall’eccitazione di un viaggio lungo come mai ne avevamo fatto uno, stavamo sparpagliati chi con il collo scannato dalla lunga posa innaturale alla quale ci costringeva il sedile dell’aereo, chi guardingo a cercare complicità inattese, chi a fissare ricordi che sarebbero riemersi anni più tardi su pellicole che presto sarebbero andate a finire in un dimenticatoio fatto di carrelli di diapositive e cassette di plastica grigia abbandonate dietro coltri colorate di vestiti appesi in un armadio. E chi, invece, non toglieva lo sguardo dalla luce che rischiarava i capelli di Irina, e creava storie, immaginava incontri, cercava parole per parlare di sé e sentire di lei.


Diversi giorni più tardi, un volo più avanti sospeso sul filo di bianche nubi spesse che scivolavano sulla superficie del deserto del Kizilkum, ci avvicinavamo ad Urgench, la nostra tappa obbligata per accorciare il viaggio che da Samarcanda ci avrebbe portati a Khiva
Di Khiva si potrebbero raccontare molte cose, parlare delle mura di terra e sabbia, della moschea jami fatta di una fitta foresta di colonne di legno trafitta dalla luce del Sole, dei minareti colorati di migliaia di maioliche lucenti, dell’harem di un palazzo racchiuso in mura poderose dove l’ombra e la luce si susseguono a raccontare litanie di desiderio, potere, amore, passione, debolezza e vitalità.
Si potrebbero raccontare molte cose di Khiva, ognuna vivrebbe di una fitta rete di rimandi, di allusione, di simboli e di ricordi. 
Ma tra tutte queste, una, l’ultima, è quella che ha inaspettatamente generato una cascata di eventi nel corso degli anni a venire che vale la pena di cercare di tenere a memoria e condividere.

Intanto Irina aveva sollevato lo sguardo e lo aveva incrociato con quello di chi non aveva fatto in tempo a distoglierlo dal suo prima di essere scoperto a trovarsi nudo, in contemplazione. 
Ah, io non so quali siano state le parole che hanno dato il via ad una conversazione fitta e surreale come potevo soltanto immaginarla dal mio posto a sedere, lontano, da cui con l’ennesimo torcicollo stavo lì a godermi lo spettacolo di un corteggiamento impacciato e in una lingua tutta da immaginare!

Nel mio pensiero non c’era ancora spazio per riconoscere quanto quel tema, quello delle lingue diverse, di culture lontane, di pensieri inattesi, avrebbe potuto essere fecondo per una curiosità lontana a venire e che, tuttavia, da qualche parte aspettava soltanto di essere risvegliata e messa al mondo. 
Che lingue e segni diversi potessero fecondarsi mi sembrava una possibilità così affascinante che la cercavo nell’aria ogni volta che incrociavo per strada uno sconosciuto e mi rattristavo alla sola idea che, come altre migliaia già nella mia vita, sarebbe svanito lungo la strada della sua via, lontana e ormai irraggiungibile dal punto, a me apparentemente immobile, della mia esistenza. 
Mentre questi pensieri si accapigliavano nella mia mente, lì di fronte, a pochi sedili da me e al riparo del ronzio dei motori, si consumava l’emozione della conoscenza, le parole si sfioravano incerte, i suoni si articolavano in spazi striduli, ciascuno con un suo bagaglio di storie e narrazioni che appartenevano alla propria memoria di comunità e si susseguivano sino alla domanda fatale, pronunciata con una torsione del busto e con lo sguardo fisso negli occhi dell’altro, a mezza strada tra la sfida e la malizia, pronta ad esplodere in una risata fragorosa come quella che da lì in poi sarebbe venuta a ogni instancabilmente rinnovato racconto di quell’incontro e di quella notte in aereo:
ti piace il tè?

Ora, come si potesse rispondere a quella domanda, dalla bocca impastata di sonno nel cuore della notte, io posso soltanto lasciarvelo immaginare. 
Io vedevo le mani nervose scarnificare i braccioli dei sedili e il fiato sottile cercare di farsi strada per muovere le corde vocali tramortite dall’implacabile suono di quello schiaffo assestato su tutte le aspettative di chissà quali sogni e quali storie future. 
Come puoi dire, sì, mi piace il tè, se non lo sai, se non hai mai affrontato l’asperità delle decine e decine di essenze diverse, dei tanti modi di farne buon uso, se il tuo orizzonte si esauriva in una bustina scossa all’aria per ricavare quel piccolo vuoto per agevolare lo strappo e abbandonare distrattamente il filtro di una sostanza ignota all’acqua appena bollita in una tazza qualunque raccattata dal primo stipo della cucina di tua madre!
"Beh, sì, mi piace il tè, mi piace tanto. Effettivamente lo adoro il tè", diceva sperando che quella fosse la chiave giusta per entrare nello spazio di intimità che stava tra gli occhi di Irina e le pagine ingiallite della sua lettura. 
Lo spazio riempito di suoni gutturali, distorti e dissonanti alle sue orecchie per quel poco di russo che aveva sentito, per la prima volta forse, chissà, salendo sull’aereo. 
Irina si sarebbe dissolta di lì a poche ore, con la sua storia di figli sottratti, di guai con la giustizia, di inganni e allusioni, con una corsa nella notte cantando Celentano, ma forse era Toto Cutugno, o forse no, doveva essere proprio Celentano per assecondare il suo tassista invasato che correva per Tashkent guidando come fosse l’ultimo istante per raggiungere il frutto proibito.

Così il suono del quadrimotore e lo stridio della gomma sull’asfalto si erano dissolti nella luce dell’alba fatta di freddo e brina poco fuori le mura di Khiva. 
Ed è lì che l’avrei sentito davvero, per la prima volta nella mia vita già un bel pezzo lunga, che il tè mi sarebbe piaciuto, che mi piaceva l’idea del tè, del vapore leggero nell’aria densa della notte gelida, della mano calda che lo accompagna e lo serve, del ristoro che porta all’anima, delle parole scambiate per scoprirne tutte le fragranze, delle confezioni preparate con cura e fatte dono una volta tornati a casa a una madre, un padre, una cognata. Sì, quel tè sulla mano nodosa e in penombra sarebbe riemerso molte volte ancora tra i tanti ricordi di viaggio, le promesse di avventure, le corse a bocca spalancata nell’aria tersa di un luogo sino ad allora solo immaginato scorrendo le parole dei libri di storia.


Ma c’è un tè che viene prima del tempo ed un altro che lo genera il tempo, che diventa la primordiale esplosione da cui tutto, apparentemente, nacque, salvo scoprire dopo un lungo passaggio tortuoso, che era sempre stato lì dentro i miei occhi, dentro ogni ricettacolo dell’esistenza, dell’esistere, dell’essere. 
Ecco, il tè che genera il tempo e che segna con una vernice di senso la mia vita e la voglia di condivisione per riconoscere nuovi compagni di viaggio, stava posato su un pavimento irregolare, bruno di terra, sotto un cielo di mattoni. 
Lì, nell’aria gelida con il fiato in nuvole di vapore a toglierci le parole, poco fuori una delle porte della città di Khiva, su una delle tante diramazioni della Via della Seta che attraversano l’Asia centrale, stava una piccola tomba dove riposano le spoglie di un santo caro all’Islam. La sepoltura, come la legge impone, orientava il simulacro di un sarcofago a sud-est, in direzione della Mecca, in modo che il corpo defunto di un’anima dipartita potesse continuare a volgere lo sguardo verso il luogo a sé più caro. Coperto da un drappo verde, stava nel silenzio e nella lentezza più fraterna che avessi mai visto sino ad allora, sotto una piccola cupola ad immagine del cielo. 
Come cielo e terra si tocchino attraverso una cupola e un prisma che protegge lo spazio della devozione dalla furia del caos lì fuori, è un tema meraviglioso che sarebbe finito presto nella mia vita per rivestirsi di tante parole create da un popolo eterogeneo di bizzarri cultori dell’estro e della stravaganza, della tecnica e della sapienza, delle illusioni e della debolezza umana: in una parola, architetti! Come io mi accingevo a diventare, e come avrei impiegato anni a capire che si trattava soltanto di un vestito buono per feste a tema, che avrebbero sempre avuto bisogno di un corpo in carne, ossa e anima per potere avere vita. 
Insomma, trombe, pennacchi e triangoli variamente assortiti stavano entrando nel campionario specialistico di una lingua esoterica che cercava in tutti i modi di darsi un vocabolario, diverso tra le molte lingue per altro, per parlare di quella cosa così semplice e misteriosa che era la rappresentazione dell’universo infinito in Terra. Semplice, no?

Prima di cadere in quella pentola rovente di tecnicismi, prima che le lingue e il pensiero si mettessero in moto per descrivere e trasferire a qualche altro adepto sibillino il proprio quadro misterioso del mondo, un braccio teso emerse dall’ombra. 
Vivo! Sì, certo, vivo nel suo abito verde della stessa venatura grigia della terra. Vivo e con una mano pronta all’invito e all’incontro, attraverso una tazza bollente di tè.

Quante parole si sono affastellate cercando quella giusta da snocciolare lì, pronta per quella occasione preziosa di intimità, tra quell’omino barbuto seduto a custodia di quel luogo e il mio compagno di viaggio quella mattina lì fuori le mura di Khiva? Centinaia di parole fatte di curiosità, voglia di scoprire i nomi, le storie, i luoghi, le discendenze, le origini? Centinaia di parole per raccontarci un poco senza paura, con un po’ di pudore per il fatto di essere così lontani dalla nostra casa? Migliaia di pause, brevissime per trovare l’espressione più giusta, quella che avrebbe aperto il cuore di tutti noi facendoli battere all’unisono per scoprire di essere sempre stati fratelli?

Nessuna, invece!

Non un verbo, un piccolo pronome, una interiezione, una congiunzione buttata lì tra un sospiro e l’altro, un nome, qualcosa, qualunque cosa pur di evitare il silenzio!
Era quel silenzio il regalo che ci stavamo facendo
Quel silenzio diceva che c’erano due mondi che si stavano guardando, ciascuno con le proprie memorie, ciascuno con le proprie divinità. E che non serviva conciliarle in un solo verbo, che non c’era bisogno d’inseguire il primo vagito che precedette il crollo della torre di Babele. 
Non soltanto non ce n’era bisogno, ma proprio lì in quello sguardo proteso verso l’intangibile altro, stava il mistero della bellezza di essere lì, vita e diversità. 
Complementari, gli uni necessari agli altri per potersi anche soltanto immaginare e raccontare, per sfuggire alla tirannia di un luogo condiviso fatto di parole date per impartire ordini che tutti avremmo compreso e di cui saremmo stati solo esecutori stanchi e storditi. 
Lì, in quel silenzio, dimorava la grandezza della molteplicità, la verità del desiderio di dissetarsi a quella tazza di tè. 
Lì la coscienza si rivelava come l’intreccio più ricco e vivo di possibilità e di interazioni, spoglia di ogni pretesa di assoluto, leggera e dinamica come le mille foglie che fremono al cielo d’autunno, ciascuno con la sua vibrazione che vive solo sfiorandosi con l’altra.

Avrei trovato molti anni più tardi le parole di uno studioso per raccontare con più precisione il senso del sentire di quell’incontro, il fatto che l’”idea della possibilità di un solo linguaggio” sia una illusione, che ogni entità che esista sia costituita dell’incontro di due lingue e della loro incapacità di abbracciare, da sole, il mondo. E che quella incapacità di ridursi a uno, sia piuttosto che difetto, una condizione di esistenza, in modo che proprio quella mancanza detti la necessità all’altro. 

Quell’incontro con l’altro ha svelato e me il mondo, la sua natura, il suo senso, sulla Via della Seta, davanti ad una tazza di tè.

 

 

 

 

Questo racconto nasce dall’esperienza vissuta in prima persona nella primavera di Pasqua del 2002 in Uzbekistan, e riverbera degli studi sulla natura della coscienza che si sono sviluppati nella ricerca neuroscientifica negli ultimi due decenni. 
Per approfondire questo tema, si può leggere il denso articolo accessibile liberamente in rete di Sanna, M. 2018, Coscienza, consapevolezza, senso. Semiotica e neuroscienze, in “Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia”, vol. 9 (2018), n. 2, pp. 178-191.

Su Coscienza e Consapevolezza si può consultare l'approfondimento di  Raffaella Setti su Accademia della Crusca
Consapevolezza è, infine, la prima delle Parole Ristrutturate, il progetto Ilmondochesei su etimo e senso delle parole a cura di Fabrizia Dragone e Claudio Rubini che trovi tra le risorse a tua diposizione su questo sito a partire da oggi e a cadenza settimanale.


Credits:
Foto di Chantelle Kusi, AXP Photography, Zugr, AXP Photography, Mesh, Artem Asset su Unsplash  

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