Namo Buddhaya - viaggio in Nepal - ALLE PENDICI DELL'HIMALAYA, UNA STORIA DI SGOMENTO E LIBERAZIONE.
Questo racconto riscrive la storia delle origini di uno dei luoghi di culto buddhista più importanti dell'intero Nepal, oggetto di pellegrinaggi, visite e incontri di studio e meditazione, il monastero di Namobuddha. Lo abbiamo visitato alla fine dell'autunno dell'anno 2022 con un gruppo di compagni di viaggio con i quali ci siamo messi in cammino sulle orme della spiritualità buddhista attraverso luoghi di fascino e suggestione profonde. Questo racconto vuole riportare in parole le impressioni che quei due giorni trascorsi seguendo il ritmo del tempo dei monaci e degli studenti che animano il complesso monastico hanno lasciato su di me e che, in qualche modo altrettanto originale e unico, hanno segnato le esperienze di chi ha vissuto con me quella esperienza.
Con la certezza di tornare a percorrere quel sentiero che conduce a Namobuddha.
Chissà, magari presto, sul principio della primavero del 2024.
Il prossimo mese di aprile, dal 30 marzo al 15 di aprile 2024, saremo di nuovo in viaggio in Nepal per tornare a visitare i monaci di Namobuddha.
I Giardini di Siddharta, il progetto Ilmondochesei in Nepal, è in questi giorni aperto alla partecipazione di chi voglia unirsi a noi in questo viaggio in una terra di grande bellezza e ricchezza. Mi piace rendermi disponibile ad ascoltare chiunque voglia conoscere meglio il nostro progetto con l'idea, perchè no, di gettare il cuore tra le montagne nepalesi.
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Prologo - nella tana della tigre
Lo sbadiglio con i denti affilati e bianchi sul corpo flessuoso e smunto doveva avere impressionato anche la sua cucciolata affamata e impaziente.
Il freddo nella foresta ai piedi delle montagne innevate ad ogni alba e tramonto tramortiva le vibrisse lunghe sul muso teso nell’aria della notte a carpire il più piccolo movimento di una preda ignara d’esser pronta al sacrificio. Le lunghe pennellate di nero sul pelo fulvo si gonfiavano al ritmo del respiro lento e vaporoso dell’aria carica di umidità e grilli al chiarore della Luna. La grande tigre, mamma dei suoi cuccioli, con l’occhio spento dalla fame e le mammelle vuote e martoriate invano nell’attesa di un nutrimento ormai perduto, fiutava immobile il suo destino, il suo abbandono alla morte e dei suoi figli.
Lo sbadiglio si stampava in una smorfia senza più il ruggito che in passato aveva intimorito ogni animale nel raggio di tante miglia. Al riparo d’una grotta tra le balze rocciose dei declivi che scendono verso la valle popolosa e densa di Kathmandu, osservava mesta il dissolversi delle immagini nei suoi occhi inspessiti dalla nebbia del sonno, l’ultimo, prima di abbandonarsi al fiume della vita.
Su quelle balze ciondolava avanzando nel senza tempo di un mantra appena sussurrato a mezza voce Semchen Chenpo, il terzo di tre fratelli del grande Re Shingta Chenpo, il Grande Auriga, alla ricerca del suo destino di pace e liberazione, assorto nel cammino che lo avrebbe di lì a poco, consegnato all’ultimo giro di vita nella continuità dell’esistenza. Partito insieme ai due fratelli Dra Chenpo, Grande Suono, e Lha Chenpo, Grande Deità, il principe Grande Essere, bardato dell’arco e le sue frecce, si imbatté nel rifugio della tigre, che dormiva stordita dalla fame accanto alla sua prole.
Appena la videro, i fratelli Grande Suono e Grande Deità, impugnarono i loro archi e incoccarono le frecce pronte a trafiggere il corpo della grande tigre.
La compassione che colmava il cuore fin dalla sua nascita sgorgò attraverso le parole di Grande Essere che ammonì i suoi fratelli dall’uccidere la tigre che giaceva immobile ed esausta sul fondo della grotta. Ai fratelli chiese Grande Essere di quale cibo si nutrisse la grande tigre; “di carne fresca e sangue”, gli risposero. Avrebbe dovuto uccide, allora, Grande Essere per sfamare la tigre e salvare i suoi cuccioli dalla morte per inedia.
Fisso lo sguardo alla tigre morente, Grande Essere stava anch’egli immobile svuotando la sua mente dai pensieri e cercando nell’oceano di saggezza della compassione che lo abitava, quella immagine che lo avrebbe guidato alla salvezza dell’animale morente.
Fisso era il suo sguardo davanti a lui sul fondo della tana, immobile agli occhi dei due fratelli che, impazienti di tornare ai campi fioriti dove il Re e la sua consorte loro madre avevano ordinato di attrezzare il campo di tende e libagioni, abbandonarono il fratello all’oscurità di quel rifugio.
Grande Essere si ridestò dalla fissità nella quale si era annullato e, vistosi solo, si incamminò sulla traccia che avevano lasciato per lui sull’erba fresca di rugiada Grande Suono e Grande Deità. Nel suo cammino con il cuore in gola correvano nella sua mente vigile queste parole “Per lungo tempo sono stato avvinto dalla ruota del Samsara, gettando via innumerevoli vite, talvolta per via di desiderio ardente, talaltra per avversione, talune per causa di ignoranza. Ben di rado ho trovato sul mio cammino un’occasione come questa per guadagnare merito sulla via della liberazione. Quale altro vero scopo può avere questo corpo se non realizzare il Dharma? È deciso, è giunto il tempo di farne atto di vera generosità”.
Mentre questa decisione scioglieva il suo cuore in uno slancio di pura gioia, con i fratelli ormai a vista davanti a sé, fermò i suoi passi e disse, rivolgendosi loro, “andate, andate avanti; ho da fare qui, vi raggiungerò presto”. E quelli così fecero.
Grande Essere voltò loro le spalle e si mise a correre a balzi sulle sue stesse orme, fendendo sciami di bianche farfalle che gli aprivano la strada.
E raggiunse la tigre esausta.
Si avvicinò senza che quella muovesse un solo muscolo del suo corpo sino a toccarle il muso. Allora ricordò Grande Essere le parole dei suoi fratelli, “non solo carne, ma sangue vivo”. Lasciò la tana precipitandosi nella foresta dove da un grande albero spezzò un ramo che si ruppe come la lama di un coltello e con quello si ferì; il sangue di Grande Essere cominciò a scorrere luminoso e fulgido e tornò correndo i suoi ultimi passi verso la tigre, si accasciò davanti alle sue fauci e quella guidata dall’odore del sangue cominciò a leccarlo e a berne.
I suoi occhi si rianimarono, le orecchie si tesero al sibilo del vento che si incuneava nella grotta, la coda tornò a farsi mulinello, gli artigli riapparvero sotto il pelo folto a ghermire il suolo umido di terra, le zampe si riebbero dal torpore e si mossero sentendo la forza respingerla la terra, la testa si levò d’imperio, la bocca si aprì in un ruggito che scosse la valle e Grande Essere abbandonò il suo corpo al morso fatale che lo divorò.
Semchen Chenpo e la grande tigre nella tana oscura circondata dai suoi cuccioli.
Nei campi in fiore e il regno celeste di Tushita
Al campo di fiori e libagioni, il Re le la Regina si nutrivano della luce del pomeriggio che disegnava lunghe ombre di festa mosse dal vento sui campi colorati. I due principi correvano spensierati tra la servitù indaffarata, quando sul vociare di vita dell’accampamento, dal brulicare di suoni sottili che si levavano dalla foresta scura, risuonò regale il ruggito della grande tigre!
Fu allora che Dra Chenpo e Lha Chenpo riemersero all’improvviso dal loro torpore di sollazzi e risolini e corsero i loro pensieri a Semchen Chenpo ormai lontano dai loro occhi da lunghissimo tempo. E ricordarono insieme la tana della tigre morente e le parole del fratello, “andate, ho da fare qui…”.
E mentre pensavano così, la Regina vedeva in sogno tre alte colombe bianche nel cielo ed un falco che colpiva l’ultima e più piccola di quelle, svegliandosi di soprassalto stringeva forte la mano del Re consorte e con le labbra ancora intorpidite dal sonno e gli occhi scossi dal terrore di un presagio riferiva, tra i singhiozzi, a lui quella livida visione. E il Re sbiancò rivedendo i suoi amati figli nel volo delle colombe e del suo bene più prezioso, il principe Semchen Chenpo il Grande Essere, l’ombra della colomba ferita a morte.
E mentre ordinava a tutta la servitù di mettersi alla ricerca di Grande Essere, i principi suoi fratelli, con gli archi e le frecce di nuovo sulle spalle, si misero a correre dritti con gli occhi avanti ai loro corpi di mille passi, verso la tana della tigre dove il loro cuore tremava al pensiero di avere perduto il caro fratello. E giunti dinanzi a quella, ormai all’ora prossima della sera, con due rami fatti torce, entravano col fiato immobile nella gola, verso il fondo della grotta e uno spettacolo orribile di sangue e ossa e brandelli di vesti regali stava abbandonato in quell’antro silenzioso; e svennero uno sull’altro i corpi.
Mentre alle grida della servitù che invocavano la risposta di Grande Essere rispondeva il silenzio sinistro della foresta, si riavevano dal torpore e dal dolore di quella vista i principi Grande Suono e Grande Deità che raccolsero ciò che rimaneva delle vesti del fratello e con quel fardello di cenci insanguinati tornavano impietriti verso il campo nella sera portando con sé il cuore colmo di quella nuova triste con la quale trafiggere lo spirito degli amati genitori.
E così fu.
Nello strazio del dolore e del rimorso stavano il Re e la Regina e la scorta armata alle loro spalle di fronte a ciò che rimaneva del corpo di Grande Essere sul fondo della grotta. E lo raccolsero, e ne fecero urna su cui versare tutte le lacrime della loro tristezza per lungo tempo ancora nella propria vita.
Mentre tutto questo si compiva Semchen Chenpo, Grande Essere, rinasceva a nuova vita nel regno di Tushita, nel corpo di Nyingtob Chenpo, Grande Coraggio, e con il suo sguardo divino scrutava dal cielo di Tushita i cinque regni e vedeva le ossa di Grande Essere raccolte dalle mani pietose della madre di lui e la sofferenza di lei e il dolore del consorte e Re e lo sguardo attonito dei figli loro e, mosso dall’amore che splendeva nel suo cuore, scese dal regno di Tushita per posarsi sul cielo della terra e rivolgersi a loro con queste parole, “Sono il principe Grande Essere. Dopo aver fatto del mio corpo nutrimento alla tigre affamata e morente, sono rinato nel regno celeste di Tushita”.
A queste parole con voce sola il Re e la Regina dissero, “Figlio – e quella parola, figlio, tremava nei loro corpi afflitti dal dolore – tu che sei il nostro cuore, offrendo te stesso in sacrificio alla tigre morente hai compiuto il più lodevole e generoso dei rituali, ma chi può lenire nel nostro spirito la sofferenza che sentiamo per la tua mancanza?”.
Rispose allora Grande Coraggio, “Non siate infelici. Alla fine di ogni vita vissuta c’è la morte e la dissoluzione e alla fine di ogni ricchezza c’è la separazione. Nessuno può sottrarsi a questo grande disegno, perché questa è la natura delle cose. Per ciascuno. Se in vita realizzate cattive azioni, cadrete nel regno degli inferi, se realizzate buone azioni rinascerete nei cieli più elevati. Per questo, vivete di buone azioni, celebrate i più nobili scopi nelle vostre preghiere e ci rivedremo nei regni celesti”.
E, così dicendo, scomparve.
E il Re e la Regina e i principi col cuore aperto a quelle parole di conforto, raccolsero le povere ossa mortali di Grande Essere e le deposero in una urna ornata di sette gioielli e la posarono lì dove Semchen Chenpo aveva lasciato cadere il suo corpo. Ed un grande stupa bianco fu eretto in memoria sua.
Il sole sorge come il volto chiaro e radioso della giovinezza sui tetti dorati del monastero di Namobuddha
Epilogo - nel monastero di Namobuddha
Questa è la storia di Semchen Chenpo e di una grande tigre che si fece veicolo alla sua ultima realizzazione nel regno della luce eterna di Tushita.
Oggi, quel luogo teatro dell’ultima realizzazione di Grande Essere è un importante centro di meditazione e studio chiamato Namobuddha. La tradizione racconta che gli abitanti delle valli vicine alla tana della tigre, dopo il sacrificio di Semchen Chenpo, intimoriti dal rinvigorito ruggito del felino, attraversavano la regione recitando intensamente il mantra Namo Buddhaya, prendo rifugio in Buddha, e da qui, per contrazione, prese il nome Namobuddha quel luogo.
Lasciando Kathmandu si raggiunge Namobuddha con una comoda strada che si inerpica sui pendii delle colline che precedono le grandi vette himalayane, e si viene accolti dal sorriso dei giovani monaci che gestiscono una piccola e accogliente sala ristorazione dove ci siamo spesso rifocillati e riscaldati con un tè caldo nell’attesa di dedicarci agli incontri con i maestri del monastero.
Il monastero è un articolato villaggio di edifici e tetti dorati a pagoda che si stringono, attraversati da lunghe e ripide rampe di scale, intorno alla grande sala di preghiera e meditazione che sovrasta la valle sottostante.
Tra gli spazi che disegnano l’aria intorno ai luoghi della grande assemblea e dello studio, ci si incammina sino al colle su cui sorge lo stupa bianco che ricorda il passaggio di Semchen Chenpo nel regno di Tushita. È un luogo che brulica di vita, di mala e drappi di preghiere che raggiungono le cime imbiancate di neve che ci guardano da settentrione facendo baluardo al regno del Tibet, e ai suoi piedi, percorrendo un sentiero silenzioso e ombroso delle fronde dei grandi alberi odorosi, si raggiunge la tana della grande tigre dove le piccole statue immobili dei suoi cuccioli e le fauci aperte nel ruggito fatale stanno intorno al Buddha sorridente seduto al fondo della grotta e coperto di veli bianchi di purezza.
Questa grotta, intorno alla quale si nuove il sentiero sul quale mi sono incamminato, il suo cielo di roccia scura e possente, è sormontato da una grande statua dorata del Buddha che chiama la terra a testimone dell'illuminazione. E questa grande statua drappeggiata di mille e mille preghiere colorate che fluttuano al vento dell’Himalaya, è circondata da piccole statue dorate con lo sguardo fisso e basso davanti al proprio corpo, le mani giunte al petto, i neri capelli sul viso serafico, sui loro piedistalli di devozione e assorbimento.
Lì intorno, sul fianco di quel circolo di deambulazione attorno al Buddha che ogni anima percorre sul proprio cammino di liberazione, c’è un piccolo antro buio dove talvolta, aspettando silenziosi, si compie il rito sacro dell’abbandono al silenzio, alla concentrazione, alla contemplazione, alla meditazione.
Come è capitato a me di vedere, quando nel suo abito color della terra scura, con la fiamma di una candela accesa sul fondo della grotta, il volto a quella fiamma, le spalle al cielo blu di un giorno terso al principio dell’inverno, una giovane monaca assorta nel suo muoversi lento e preciso, silente e rituale, si è seduta sistemando il suo abito, le gambe incrociate e le braccia abbandonate sulle ginocchia basse, mettendosi in ascolto dei pensieri via via più flebili e sottili, lasciando la porta dischiusa al vuoto della mente, entrando ad occhi chiusi sul sentiero della conoscenza e della verità.
Non c’è immagine che potessi cogliere in quel momento per raccontare quanto nitido fosse ogni gesto compiuto da quella donna, che possa essere oggi più forte del ricordo del silenzio che la abitava e circondava. Nulla che non trasferisse in me un vago senso di gratitudine per una pace che per osmosi passava ai miei passi prima incerti e intimoriti.
Namo Buddhaya, come il cuore occidentale poteva coglierlo, affidato alla verità, affidato alla libertà, al silenzio, alla fame estinta, al desiderio placato, all’inquietudine dissolta, alla comunione generosamente aperta al mondo.
C’è un breve commento alla natura che il monastero di Namobuddha incarna, scritto dai monaci che lo abitano per descriverne il suo significato, che mi piace ricordare qui, concludendo questo piccolo racconto di un luogo di sgomento che si fa rivelazione. È questo:
“Il paesaggio che circonda Namobuddha somiglia a un loto a otto petali, e il cielo ha la forma di una ruota a nove raggi. Le montagne, intorno, brillano di bianco come un cristallo o una conchiglia, i boschi di smeraldo e di turchese. D’estate i venti di mezzogiorno portano frescura, d’inverno il sole caldo è come il volto chiaro e radioso della giovinezza. Le nuvole si radunano allo spuntare del giorno e colorano di rosso il tempo del tramonto, le nebbie si spostano placide come drappi di seta bianca; risuonano i tamburi dei tuoni tra i lampi che dardeggiano in una danza agile e leggera. Tutto in questo luogo prepara al samadhi, ispira fede, apre alla rinuncia.
Nel luogo supremo di un ritiro come è Namobuddha, solitario sulle balze di una montagna, tutto è virtù”.
Namo Buddhaya!
Il Buddha bhumisparsha è raffigurato seduto, con la mano destra appoggiata sul ginocchio e le dita rivolte verso la terra. La mano sinistra poggia sul grembo con il palmo rivolto verso l’alto. “Bhumisparsha” significa “che tocca la terra” o “chiamare la terra a testimone”. Questo mudra rappresenta il momento in cui il Buddha ha raggiunto l’illuminazione ai piedi dell’albero della Bodhi.
Questo racconto è stato scritto attingendo alla storia di Semchen Chenpo, così come viene raccontata dagli stessi monaci del monastero di Namobuddha e che potete leggere in inglese in www.namobuddha.org
La mia non è una traduzione del testo disponibile in rete, ma una riscrittura per immagini e impressioni scaturite dall'incontro con quei luoghi al principio di dicembre del 2022. Il mio ringraziamento va a Lama Karma Phurbu ed ai suoi insegnamenti che hanno nutrito tutto il gruppo di amici che hanno viaggiato con me e Fabrizia Dragone, che cito qui soltanto per nome, Margherita, Rachele, Riccardo, Alessandra, Caterina, Patrizia, Corinna, Maria, Stefania, Maria Grazia, Riccardo e Stella. Senza ciascuno di loro, questo racconto non sarebbe mai stato possibile immaginarlo e scriverlo qui.
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Credits:
Foto di Claudio Rubini