MIO FIGLIO NON è RESPONSABILE.

perché e cosa posso fare?.

“Mio figlio non è responsabile”.

Una delle frasi preferite di noi genitori. 

  • I suoi giocattoli sono sempre sparsi ovunque. Sono suoi. Dovrebbe imparare a metterli in ordine.
  • Vogliamo parlare della sua camera? Non si sistema neppure gli abiti lavati e stirati che ripongo sopra il suo letto. 
  • E i compiti? Una barzelletta. Anzi una tragedia. Se non sono io a dirglielo non guarda neppure il diario ed il registro elettronico.
  • La mattina quando si sveglia, mi sembro un navigatore satellitare. Devo dargli le indicazioni altrimenti, alle 8,00, è ancora in bagno senza vestiti. 
  • La cartella? Se non la controllo, rimane sei ore a digiuno senza merenda e porta a casa una decina di note al giorno.
  • Non gli chiedo nulla in casa. Ma almeno le immondizie. Lui le porta giù, ma se non glielo lo ricordo, veniamo sommersi dai rifiuti.

Spesso i nostri figli sono bravi e disponibili: se chiediamo loro di fare qualcosa, la accolgono e la eseguono. Nel migliore dei casi sistemano, riordinano, sparecchiano, ma…dobbiamo dirlo un numero piuttosto elevato di volte e, se non stiamo lì a controllare e a ricordare, dopo pochi attimi se lo dimenticano.

No, non è un problema di memoria a breve termine (anche se a volte l’ho sospettato). E non è neppure mancanza di rispetto e tutte queste pessime interpretazioni che si intrufolano nella nostra testa, mettendo in discussione la buona relazione con i nostri figli. 

Se non ricordano di sistemare la tavola difficilmente si tratta di sfida, mancanza di amore o di rispetto (a meno che non ci siano relazioni altamente conflittuali da risolvere).

La maggioranza delle volte la loro risposta è “ok, lo faccio”. Semplicemente poi le informazioni dentro la loro testa si resettano completamente.

Vogliamo parlare della loro percezione dell’ordine?

Io potrei scrivere un poema, visto che convivo con uomini. Una meraviglia. 

Avete presente quelle situazioni apocalittiche perché negli ultimi tre giorni siete usciti la mattina all’alba e siete rincasati tardi?

Avete presente quando il salotto perde le sue sembianze e diventa un magazzino disordinato di oggetti improbabili?

E a quel punto dici a tuoi splendidi figlioli: “ragazzi, oggi sistemate un po’ il soggiorno. Poi domani pulisco io”. E loro, con occhi sinceramente stupiti ti dicono: “cosa c’è da sistemare?”. E a quel punto qualche domanda te la poni. 

Va bene che ognuno di noi vede il mondo attraverso degli occhiali personalissimi, ma cavolo…qui c’è qualcosa che non funziona.

A questo ci aggiungi che, anche se a volte hanno la vaga sensazione di un leggero disordine, non passa neppure per l’anticamera del cervello l’idea di sistemare.

Unisci, come ultimo ingrediente, che anche quando glielo dici, se lo dimenticano entro un periodo di tempo pericolosamente breve.

Bene.

Prima di rassegnarci a questa triste realtà, cerchiamo di capire cosa succede e vediamo se abbiamo qualche speranza di sopravvivenza a tutto ciò.

Oggi vi parlo della responsabilità e di come funziona.

Come sempre, la conoscenza ci permette di fare scelte più consapevoli e ci aiuta a vivere meglio.

Vi racconto di un famoso esperimento eseguito nel 1968 da Darley e Latanè, in seguito ad un episodio di cronaca. Una ragazza viene pugnalata a New York e, nonostante i vicini vedano la scena, nessuno presta soccorso.

Per cercare di capire l’accaduto, due psicologi sociali decidono di approfondire questa dinamica.

Leggo direttamente il testo da un sito che descrive l’esperimento: 

“i ricercatori reclutano 72 studenti di psicologia, dicendo loro che sarebbero stati coinvolti in una discussione sulla vita universitaria. Ciascuno veniva portato in una stanza nella quale poteva comunicare con gli altri attraverso un citofono, in turni di due minuti a testa, al fine di salvaguardare l’anonimato. Durante la discussione, un ragazzo prende la parola, ma d’improvviso si sente male. I sintomi sembrano quelli di un attacco epilettico e in effetti il ragazzo ha precedentemente detto di soffrirne. (ovviamente era l’attore coinvolto nell’esperimento)

I partecipanti sentono al citofono la sua richiesta d’aiuto.

Per due minuti non possono comunicare tra di loro.

La variabile indipendente è la numerosità del gruppo, che può variare da due a sei partecipanti.

I risultati mostrano che l’85% dei partecipanti che sanno di essere l’unico interlocutore della vittima cercano aiuto in modo tempestivo (prima che la vittima smetta di parlare), mentre nel caso in cui la discussione avvenga in gruppo solo il 31% dei soggetti interviene per chiedere soccorso. La vittima ha quindi maggior probabilità di essere aiutata quando a essere presenti sono una o due persone, mentre questa probabilità cala quando ad assistere sono, ad esempio, in cinque”.

Quindi, maggiore è il numero degli spettatori, minore è la responsabilità che ciascuno si addossa nel prestare soccorso.

Altri esperimenti hanno avuto seguito e tutti confermano che, quando siamo all’interno di un gruppo, se le responsabilità non vengono specificate e divise, le persone tendono a non intervenire.

Capite cosa accade?

Il nostro cervello, se pensa che ci sia qualcun altro ad occuparsi della cosa, non se ne fa carico.

Traduciamo questa dinamica nella quotidianità e torniamo nella nostra casetta, un po’ più calda e sicura di alcune zone newyorkesi.

In questa casetta ci sono dei figli, che vivono nella loro famiglia di 3 o 4 o 5 o 6 persone.

Ma in questa casetta ci sei tu che per anni hai sistemato, riordinato, ricordato.

Sai cosa accade nel cervello di tuo figlio?

Accade esattamente quello che accade anche nel nostro: essendo già carico di stimoli, lavora a risparmio e se ha registrato che c‘è qualcun altro che si fa carico della situazione, si svuota.

Prova a pensare a varie situazioni.

Fai parte di un gruppo di amici e di solito sei tu ad organizzare le uscite. Poi ti lamenti: “ma è possibile che, se non ci penso io, nessuno se ne faccia carico?”.

La risposta è ovvia: nessuno se ne fa carico perché tu ti sei fatto carico di questa responsabilità e la responsabilità è dentro ad un unico zainetto. Se lo porti tu sulle spalle, non lo possono indossare gli altri.

Oppure in ufficio sei tu che carichi la carta sulla stampante. Lo fai tutti i giorni. Guarda cosa accade. Pian piano i tuoi colleghi cancellano dalla loro mente questa azione. Tanto ci sei tu. Lo zainetto della responsabilità non è più disponibile. È sulle tue spalle.

Ogni giorno passi l’aspirapolvere a casa. Poi un giorno ti svegli e sotterri il tuo coniuge perché non è proprio possibile che mai una volta ci pensi lui.

Ancora una volta…è ovvio.

Ma pensa anche a tutte quelle situazioni a cui tu non pensi perché c’è qualcun altro che le risolve: le bollette, le assicurazioni, il bollo, la revisione dell’auto (io, fino a qualche anno fa, non sospettavo neppure della sua esistenza).

Quello che voglio dirti è che lo zainetto della responsabilità è uno solo: se lo indossi tu, non può indossarlo tuo figlio.

Quindi, come vedi, in genere non si tratta di mancanza di rispetto o di mancanza di amore. Si tratta solo che il nostro cervello funziona così.

Quindi che fare?

Per prima cosa, se vuoi dare quello zainetto a qualcuno, devi toglierlo dalle tue spalle. Sempre. E non indossarlo più.

Poi lo devi comunicare al figlio, in modo adeguato ed efficace, facendogli notare che da quel momento ci deve pensare lui e rendendolo consapevole delle conseguenze che dovrà gestire, qualora non si ricordasse.

Poi devi smettere di ricordarglielo.

Ed infine devi lascargli il tempo perché possa imparare, vivendo le sue esperienze, senza accusarlo o rimproverarlo e farlo sentire inadeguato. È normale che inizialmente si scorderà, ma se tu intervieni per ricordaglielo, o lo fai al suo posto, o gli urli dietro…lui non imparerà mai.

Un esempio.

Ti accorgi che non si ricorda di mettere la merenda in cartella.

Ovviamente fino ad oggi gliel’hai sempre messa tu o glielo hai ricordato.

Quindi, come abbiamo già visto, siccome ce l’hai sempre avuto tu quello zainetto, è ovvio che non possa averlo lui.

Quindi?

  1. Condividi con lui la necessità che impari a prendersi questa responsabilità
  2. Digli chiaramente che può scegliersi la merenda e che da ora in poi è l’unico responsabile (vedi? Non ci sono altre persone, quindi non andiamo ad attivare la responsabilità diffusa dell’esperimento). Quindi digli che se per caso la scorda, starà senza.
  3. Permettigli di tenere lo zainetto e non rubarglielo quindi, se vedi che se la scorda, non ricordagliela
  4. Non mettere tu la merenda in cartella
  5. Quando torna affamato, anziché fare quelle lunghissime prediche basate su quell’insopportabile “te l’avevo detto, la prossima volta impari”, digli che è normale scordarsela le prime volte e che ci vuole tempo ed esperienza per diventare autonomi. E che andrà sempre meglio.

 

Magia. Nel giro di poco tempo vedrai che sarà pienamente responsabile della sua merenda.

 

Non è proprio banale questo passaggio, perché, anche se non ce ne accorgiamo, noi genitori siamo spesso affezionati a quello zainetto e facciamo fatica ad accettare che i nostri figli abbiamo bisogno di sbagliare per imparare.

 

Quindi, togli quello zaino, dallo a tuo figlio e permettigli di sbagliare, sostenuto dalla tua fiducia. Solo così diventerà responsabile.


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