«Io devo scegliere cosa vale la pena raccontare: l'orrore o il desiderio... E ho scelto il desiderio, perché è quello che ci rende vivi.»
"Youth", regia di P. Sorrentino
"Ti vuoi mettere con me?", chiese l'azienda al suo cliente. Ma vissero felici e contenti? Felici e content, si direbbe con un calembour che occhieggia al content marketing: il marketing del contenuto. D'altronde in principio fu il Verbo, ovvero la narrazione. In amor vince chi narra e lo stesso accade nel mercato. In fondo lo scopo del brand è generare opportunità per incontrare il cliente. Quale migliore soluzione se non creando una storia? Le storie non sono che relazioni, forse per questo quando c'innamoriamo e ci fidanziamo si usa dire: "Abbiamo una storia".
Oggi si parla moltissimo di narrazione, narratività, ma soprattutto di storytelling. Un fenomeno di cui ci ha parlato diffusamente il Prof. Guido Di Fraia, docente al Dipartimento Arti e Media presso lo Iulm, mettendoci anche in guardia da un pericolo in particolare: se tutto è storytelling, niente è davvero storytelling. Molti oggi evidentemente la pensano come lui, specie in un momento in cui le metriche narrative appartengono a varie branche: politica, marketing, persino medicina. Dietro le più importanti campagne pubblicitarie – ancor più dietro quelle elettorali (Obama, Sarkozy, in parte Renzi) – si celano sofisticate tecniche dello storytelling management o del digital storytelling[1]. In realtà tutti ne parlano, è un concetto modaiolo, eppure è sottovalutato.
Di Fraia preferisce parlare infatti di marketing narrativo. L'approccio narrativo intercetta solo la dimensione del racconto aziendale, ma è molto più trasversale. Le transazioni possono essere massimizzate con la relazione, purché sia una relazione duratura. Evidentemente si è passati da un contenuto chiuso (lo spot, per intenderci) a User Generated Narrative/Content (la narrazione alimentata dagli utenti). Le merci, dagli anni Settanta in poi, si ritengono sistemi di segni e la loro vicinanza con il mondo delle narrazioni è palese. Le merci ci raccontano e ci raccontano agli altri, sono sempre più immaginarie e funzionali. Il consumo è un vettore di senso, dà consistenza a ciò che siamo. Il nostro cantiere identitario è aperto tutta la vita e tra i materiali che usiamo ci sono i prodotti simbolici. A proposito di cantieri, ecco l'ultima campagna narrativa di Burger King.
Il consumo, in definitiva, è soprattutto un consumo di storie.
Cos'è una storia? Secondo Paul Ricoeur è "abitare mondi altri". È importante che azienda e prodotto si raccontino perché la narrazione è un potentissimo generatore di senso. Una storia è un mediatore linguistico, un medium attraverso cui si organizzano gli scambi comunicativi umani, è un dispositivo ordinatore. E una storia si costruisce esattamente come sempre le si è costruite, anche nel caso delle favole più note. Tanto che potremmo generare una narrazione partendo dai più classici degli studi (Propp su tutti) perché le storie costruiscono da sempre la nostra identità, sono autoinganni che ci fanno accettare la vita. E dunque anche i prodotti di consumo. Nel caso del marketing le storie devono generare quattro valori: per l'azienda, per il cliente, per la società, per l'ambiente. Raccontarsi sincronizza il nostro cervello con quello dei nostri interlocutori: facciamone buon uso.
[1] Salmon C., "Storytelling. La fabbrica delle idee", Fazi, Roma, 2008