Etimologicamente, la parola “educare” significa “trarre fuori”, far germogliare, crescere e fiorire un seme già presente all’interno della persona.
Non si tratta di un determinismo biologico di lombrosiana memoria, in cui il destino -benevolo o malevolo- è segnato nel corpo senza possibilità di contraddittorio, ma di un riferimento alla necessità di avere rispetto e considerazione profonda del soggetto che si intende educare.
Dal momento che l’educazione si verifica all’interno di una relazione, possiamo facilmente immaginare quanto l’interiorità dell’ educando non sia affatto l’unica da tenere in forte considerazione.
L’educatore, infatti, non può e non deve restare immobile mentre educa: la sua postura di accoglienza -assolutamente imprescindibile per il successo dell’azione educativa- indica la necessità di un’apertura, di una disposizione al cambiamento, della messa in discussione delle proprie idee, dei propri preconcetti.
Se pensiamo a questo tema, applicato all’esperienza genitoriale, possiamo senza dubbio osservare la diffusa tendenza dei genitori ad essere naturali portatori di stili educativi a loro volta vissuti (o in certi casi addirittura subiti), e quanto la ricerca e l’applicazione di uno stile educativo proprio si dimostri faticosa e in certi momenti frustrante o addirittura, in certi casi, dolorosa.
Si scopre infatti presto quanto non basti padroneggiare la teoria pedagogica (utilissima, per carità), e quanto non sia per nulla utile o esaustivo consultare un fantomatico Oracolo Montessori nei momenti di crisi, per trasformare tout court il proprio modo di navigare nel mare bellissimo ma spesso imprevedibile della genitorialità.
Se non si mette in conto la necessità di un lavoro continuo su se stessi, come anche la possibilità di scoprirsi e rinnovarsi all’interno dell’azione educativa, se non si escludono la ricerca della perfezione nell’applicazione di metodi e tecniche, la pretesa che le risposte siano sempre da manuale, allora si rischia davvero di vivere con intenso malessere il proprio intervento, di sentirsi incapaci, inadatti al ruolo. E nella mia esperienza di supporto alle famiglie, posso dirmi testimone di quanto non sia mai realmente questo il punto del problema.
Per questo motivo diventa fondamentale osservare e accompagnare il proprio percorso di crescita anche -e direi soprattutto- mentre si osserva e si accompagna il percorso di crescita di qualcun altro, sia che lo si faccia da professionisti, sia che lo si faccia da genitori o da facenti parte, a vario titolo, della comunità educante.
Bisogna sapersi prendere cura di sé, per prendersi cura di qualcun altro.
Educare può essere un modo molto alto di dimostrare il proprio rispetto per l’individualità altrui, la meraviglia per l’esistenza e la scoperta di mondi diversi e talvolta distanti: dobbiamo riuscire a provare la stessa meraviglia nella scoperta del nostro mondo interiore, del nostro modo di funzionare, trasformando davvero le nostre reazioni inconsapevoli in azioni possibili, desiderate e arricchite dalla bellezza di un’intenzione.